Si giocava e si vinceva e si perdeva. Sulla strada di casa si faceva il conto e dal risultato dipendevano la tristezza e l’allegria. Perché a quell’età il gioco coincide con la vita, e ancora non si sono incontrati, a quell’età, i versi di una poesia di Rudyard Kipling, quelli che dicono che bisogna imparare a fare un mucchio di tutte le tue vincite e rischiarle in un colpo solo a testa e croce, e perdere e ricominciare di nuovo dal principio, e sulla perdita non dire una parola. C’erano quelle che si tenevano in casa e quelle da giocare che si portavano nelle tasche dei pantaloni. Mai in quelle del grembiule, perché da lì quello seduto al banco dietro di te poteva sfilartele in un istante solo. La prima giocata si faceva quando non si era ancora entrati a scuola. La seconda appena si usciva, a mezzogiorno. Ma erano schermaglie, esercizi di riscaldamento. La contesa vera cominciava poco prima delle tre. I dilettanti abbandonavano il campo alle cinque, quando cominciava la tv dei ragazzi. I professionisti continuavano ad oltranza, finchè un padre o una madre non li ritirava, a strattoni.
Le figurine dei calciatori sono state il patrimonio delle generazioni che germogliavano nella stagione che poi venne chiamata del boom economico. Come tutte le definizioni generali, questa era ad un tempo vera e falsa. C’erano famiglie che andavano via da un giorno all’altro, emigravano nelle città del Nord ricco e industriale, oppure in Belgio, Svizzera, Germania.
Le gesta degli eroi sono una storia che si racconta sempre uguale, ma che ogni volta sembra storia nuova. Allora, da un tempo che pare immemorabile si racconta di Gigi Riva: trentacinque reti su quarantadue partite in Nazionale; 208 in 378 partire con il Cagliari.
A trentuno anni ha dovuto smettere di scendere in campo. Ogni volta sembra storia nuova. Così sono le storie degli eroi.
Dopo lo scudetto, la Juventus offrì 1 miliardo e 9 giocatori.
Non valgo tanto, disse Gigi Riva, e restò nell’isola. Per sempre. Già, non valeva tanto. Né di meno, né di più. Gli eroi non si comprano, non si pagano. Il valore di un eroe non è relativo: è assoluto.
Per molti Gigi Riva è un eroe: il rombo di tuono, come lo chiamò Gianni Brera, il sinistro che schianta la traversa della porta, il numero 11 che si trasforma in indomabile ariete.
E’ anche un volto di guerriero greco contratto dal dolore, mentre in barella lo portano fuori dal campo, mi pare di ricordare con un ginocchio frantumato.
Gli eroi restano eroi, per sempre. Anche se fanno colazione al bar sotto casa, se passano le giornate come tutti i mortali, se vanno in giro da soli per le strade del centro della città. Anche se a volte li assale la tristezza, se qualche volta li inquieta la depressione. Allo stadio Gigi Riva non ci andava più. Troppa ansia, diceva in un’intervista al Corriere della Sera. Diceva che durante le partite del Cagliari doveva prendere il Lexotan per calmarsi, per non lasciarsi sopraffare, soggiogare dalle emozioni. Diceva dell’artrosi, della fisioterapia che non bastava. Diceva che aveva difficoltà a fare le scale – lui, più veloce di un ghepardo- che si doveva fermare a metà. Un eroe onesto, con gli occhi aperti sul mondo e sui suoi giri, che si guardava intorno, accorto, giudicava. Diceva di avere l’impressione che ora il calcio serva a mascherare i problemi, a tenere le persone inchiodate al televisore in modo che non aprano il frigo vuoto. Un eroe con il cuore di un uomo che ad un certo punto non vuole più saperne di battere nel petto.
[“ Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 28 gennaio 2024]