Ebbene, le composizioni della Stevens riflettono fedelmente questa situazione. Della poesia tardoromantica sono presenti infatti, nel suo libro, i temi più tipici, quali l’amore, la famiglia, la natura, la religione, la storia, la patria, nonché alcune delle forme metriche più caratteristiche, ampiamente diffuse già nel primo Romanticismo, come la ballata e la novella in versi. Tra i modelli poetici, bisogna citare in primo luogo proprio Aleardi e Prati, ai quali non a caso sono dedicate due liriche dei Canti. Da essi derivano quel tono di vago sentimentalismo e di languido patetismo, che caratterizza un po’ tutta la raccolta, oltre che specifici spunti e motivi che saranno indicati in seguito. Accanto a questi, sono facilmente individuabili le tracce di altri esponenti della poesia del primo Ottocento, come Berchet, Carrer, Dall’Ongaro e Poerio, i quali avevano contribuito a creare “un comune clima […] di romanticismo ‘medio’, a caratteri metrici e linguistici assai omogenei” (4), che non potevano non influenzare anche la produzione della Stevens.
Ma per completare il quadro dei riferimenti principali della poetessa gallipolina, occorre aggiungere anche il nome di Giacomo Leopardi, che godeva già di ampia risonanza in quel periodo, soprattutto nel Meridione (5). Al Leopardi, “pоеta del dolore”, la Stevens si sentiva naturalmente vicina per il suo temperamento malinconico e per le personali vicende biografiche, che tendeva a identificare con quelle del suo illustre modello. Ovviamente, l’aspetto della poesia leopardiana che più la colpiva, come succedeva del resto a tanti altri lettori del tempo, era quello “idillico”, con i motivi strettamente connessi delle “rimembranze”, del contrasto tra illusioni e realtà, della meditazione sulla condizione umana. L’accostamento a quella poesia, infatti, era allora in genere “fortemente limitato da incompatibilità di pensiero e, più spesso, dall’incapacità intellettuale di comprendere tutta la portata delle idee leopardiane e dall’impossibilità di seguirne il lucido rigore delle conclusioni” (6).
Non c’è dubbio che un’importanza decisiva sulla formazione della giovane Sofia abbia avuto il periodo passato a Napoli, dal 1856 al 1860, durante il quale ella venne sicuramente in contatto con i temi più diffusi della letteratura romantica e incominciò ad avvicinarsi a quei libri che “costituivano il canone nuovo della filosofia e della poesia” (7): la Bibbia, soprattutto il Vecchio Testamento, Dante, Shakespeare. Sono, questi, gli autori e le opere che ella stessa indica nella poesia Alla mia stanzetta dei Cuti (8), rievocando il periodo dell’adolescenza, accanto a Pindemonte, da cui le proviene il gusto melico presente nella raccolta, e ai già citati Leopardi, del quale mette in rilievo “l’angoscioso accento” (9), e Aleardi, “tutto core […] e sentimento”.
Passiamo ora ad esaminare più da vicino i Canti. Il tema in assoluto più presente nel libro è certamente quello amoroso. L’amore, in sintonia con le concezioni del tempo, è considerato il sentimento predominante nella vita dell’uomo, un “gigante” che “abbatte ogni altro sentimento” (Che cosa è l’amore, p. 161), “il più nobile senso / Ch’abbia l’umano core” (Pensieri, p. 19), il “solo / Ben, che lenisca ne la vita il duolo” (ivi). Nelle poesie della Stevens esiste una vera infinità di “palpiti” che si congiungono, come nei melodrammi di Donizetti, Bellini e Verdi, a lei sicuramente noti (10), ai “sospiri”, ai “desiri”, ai “gemiti”, agli “accenti”, ai “battiti”, ai “fremiti”, agli “ansiosi aneliti”, tutti causati sempre e soltanto dall’amore. Infatti questo sentimento, più che di gioia, è fonte quasi sempre di tormento, poiché si tratta o di un amore contrastato o eccessivamente idealizzato e quindi, in un caso e nell’altro, irraggiungibile. Anche quando c’è, l’amore è sofferenza perché può diventare una “passione” così potente da travolgere tutto e portare alla morte. È il caso della situazione descritta nella seguente strofa della canzone Ad Aleardo Aleardi:
Dal cielo son discesa,
In questa fonda valle,
E al suolo m’ha prostesa
Un infelice amore;
Non più l’amor ch’io vagheggiava teco,
E che potea secura
Fin confidare a l’eco
De le paterne mura,
Ma di foco avvampante una passione,
Che sebben corrisposta,
Terribile tenzone
Contro me stessa ha imposto.
Invano io vò domarla. Qual fa l’onda,
Tanto furente da schiantar le dighe,
Fuori trabalza, e tutto intorno inonda,
E seco trascinando la rovina,
A l’alma mia tapina
Tormenti senza fine innanzi para,
E m’apparecchia la gelata bara.
(p. 319)
Altre volte il rispetto delle convenzioni sociali impone di sacrificare il desiderio al dovere (“Sacrificai al dovere il mio desire; / Compressi il mio dolore”, Emma a Gilberto, p. 67) e, nella poesia Meditazione, viene invocata la morte se, nella “terribile lotta / Tra l’affetto e il dovere” (p. 77) dovesse prevalere l’affetto:
… Ah! mio Signore,
Se vincer mai dovesse in me il primiero,
fammi morir, che immacolato il capo
Posare io bramo su la dura bara,
E che al sepolcro mio mirando alcuno
Mi dica requie, soggiungendo ancora,
Fu infelice, ma pura, e altrove or gode!
(ivi)
Nei Canti esistono numerose “variazioni” sul tema dell’amore. Spesso la Stevens oggettiva, per così dire, diversi aspetti dell’amore in figure e personaggi, indicati anche con nomi propri. Così, ad esempio, le innumerevoli figure di gentili “garzoni”, di giovanetti sensibili e generosi, di “nobili spiriti”, che affollano il libro, stanno a rappresentare l’aspetto più alto e idealizzato di questo sentimento, mentre quelle dei traditori, impostori e “libertini” privi di anima ne rappresentano il lato volgare e negativo. In Come vorrei essere amata, la poetessa delinea compiutamente il ritratto dell’uomo che potrebbe amarla: una figura appunto fortemente idealizzata, dedita al “sacro culto” della patria e delle “cose più care”, che si sappia accontentare soltanto “d’uno sguardo”, d’un “furtivo accento” e che rifugga dagli “ebri desiri” (p. 154). E qui non siamo poi tanto lontano dall’immagine aleardiana, divenuta poi proverbiale, dei due innamorati che, in Lettere a Maria, vengono paragonati a “due verdi isolette” che “si guardan sempre e non si toccan mai”. Erano proprio questi, d’altronde, secondo Croce, le parole e i giri di frase che allora “rapivano gli animi e li facevano andare in visibilio” (11). E in quegli anni non solo l’amore, ma anche la patria, la famiglia, la religione “furono vissuti ed espressi, nell’arte come nella vita, in un viluppo intricato, con una passionalità accesa e con una commozione esaltata che era sincera ma poteva parere falsa, con un tono, dunque, che non si ritrova né negli anni illuministici e razionalistici dell’ultimo Settecento né in quelli, poi, dell’Italia unita e impegnata nei problemi pratici e ‘prosaici’, nell’Italia borghese del Positivismo” (12).
Dopo il tema dell’amore, nel libro della Stevens, viene quello della famiglia. Numerose sono le composizioni dedicate ai congiunti, al padre scomparso, alla madre, ai fratelli e alle sorelle. Soprattutto la morte del padre ritorna insistentemente nei suoi versi, rievocata come l’avvenimento che più ha inciso, in maniera negativa, sulle sue vicende. In Diletta memoria del padre mio, una delle più riuscite di questo gruppo, vengono messe in risalto le qualità del padre, come la generosità nei confronti del prossimo, l’amore per i figli, ma nemmeno qui l’autrice sa andare oltre generiche espressioni di affetto e di rimpianto.
Al gusto del tempo appartengono le poche poesie patriottiche, frutto evidente di esercitazione retorica, come Inno, dove risulta affatto convenzionale l’invito rivolto all’amato, in quartine di cadenzati ottonari, a combattere e, se necessario, a morire per la patria oppressa (“Forte il core e fiero il petto / Cingi l’arma del valor; / Corri, corri, o mio diletto, / A la pugna de l’onor”, p. 68), e A l’Italia, dove in una strofa (“Vi stringete fidenti la mano, / E giurate d’innanti a l’altare,/ Animati a vittoria pugnare, / O discendere in libero avel”, p. 334), sembra di ascoltare l’eco di alcuni versi famosi di Giovanni Berchet, tratti da Le fantasie: “L’han giurato. Gli ho visti in Pontida / convenuti dal monte, dal piano. / L’han giurato; e si strinser la mano / cittadini di venti città” (13). Questo tema, d’altronde, ampiamente sfruttato dai cosiddetti “poeti della patria” nei decenni precedenti, non poteva più avere facile presa su una poetessa come la Stevens, sia per motivi storici che per le personali inclinazioni di quest’ultima.
Tipiche di certe tendenze della poesia del tempo sono anche le numerose novelle in versi e ballate, quasi sempre a sfondo tragico, ambientate nell’antica Roma, nel Medioevo sanguinario, nell’Oriente favoloso, in una Spagna di maniera. Per la Stevens, come pure per i suoi modelli, Carrer e Prati in primo luogo (14), la storia è puro pretesto per narrare lacrimose vicende di amore e morte, di sacrifici e rapimenti, nelle quali si può apprezzare, tutt’al più, l’abilità della verseggiatrice. Ecco quindi, tra le novelle in versi, in endecasillabi sciolti, la storia della vestale Silvia, che si rifiuta di sposare il pagano Icilio e si converte al Cristianesimo, lasciandosi divorare dai leoni nell’arena (Silvia); o quella di Imelda, che si uccide dopo che i suoi fratelli hanno ammazzato Bonifazio, il suo innamorato appartenente a una famiglia rivale (Imelda). Tra le ballate, in vario metro, ecco la tragica vicenda della greca Irene, fatta schiava dai romani, che si avvelena durante un banchetto per vendicare l’oltraggio subito (La schiava greca); o quella di Gilda che, ormai impazzita, crede ancora vivo l’amante che invece è stato ucciso dal marito tradito (Gilda). E ancora ricordiamo: Umberto dalle bianche mani, dove si narra la storia di Umberto, “primier tra primi / Conti e Baroni”, il quale, dopo che il figlio annega nel fiume, decide di chiudersi in convento; Ballata, dove il tema è l’amore tra Lina e uno scudiero che viene fatto uccidere dal re, padre della fanciulla, il quale la vuole dare in sposa a un nobile cavaliere; Estella, un polimetro alla maniera di Berchet, dove si narra la vicenda di Attilio, che muore combattendo per la patria, e della sua donna che lo segue volontariamente nella tomba; Adalberata, che svolge invece il tema di una fanciulla rapita da un corsaro algerino, la quale dimentica il suo fidanzato.
La storia è ancora al centro di altre composizioni, come All’Italia e Nel partire da Venezia l’ottobre 1865, dove la Stevens, sull’esempio de Le antiche città italiane marinare e commercianti dell’Aleardi, procede a una rapida rassegna storico-geografica, richiamando vicende e personaggi legati in vario modo, nel corso dei secoli, ai luoghi descritti. Ecco, dalla prima, l’ottava relativa a Genova:
Il nome di “Superba” appiena merti
Tu, che i piè bagni nel turchino mare,
E il capo cinto de’ leggiadri serti,
Genova, poggi su colline care.
I palagi d’Andrea, sebben diserti,
Dicono ognor del Doria l’opre chiare,
E mostran quell’immagine sovrana,
Che rifulse maestosa a gente strana.
(p. 128)
Anche le liriche d’argomento religioso, Ai piedi d’un Crocefisso, Al mio libricino delle preghiere, Perdonami Signore, Preghiera, ecc. non spiccano per particolare originalità. Soltanto nel sonetto Nel di dei morti la Stevens sembra oscillare tra una fede di tipo tradizionale e una concezione atea e materialistica che richiama quella leopardiana, come sembrano confermare i precisi riferimenti alle due canzoni “sepolcrali”. Il primo verso infatti, “Siam poca polve, poca creta ed ossa”, contiene una reminiscenza dei versi iniziali della canzone leopardiana Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima: “Tal fosti: or qui sotterra / Polve e scheletro sei. Su l’ossa e il fango…” (15). Così pure il verso 12, “Tutto finisce per chi va sotterra”, sembra riecheggiare i versi 22-24 di Sopra un basso rilievo antico sepolcrale…: “.. Il loco / A cui movi, è sotterra: / Ivi fia d’ogni tempo il tuo soggiorno”. Ma si tratta di uno spunto isolato, che non risulta sviluppato altrove.
[In A. L. Giannone, Scrittori del Reame. Ricognizioni meridionali tra Otto e Novecento, Lecce, Pensa MultiMedia, 1999, pp. 9-24]
Note
1 Per un profilo biografico della Stevens si rimanda a N. S. JAMES, Inglesi a Gallipoli. Sofia Stevens (1845-1876). An English family in Gallipoli, Lecce, Edizioni del Grifo, 1993, pp. 63-78.
2 B. CROCE, Aleardo Aleardi, in La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 1973 (I ed. 1914), p. 69.
3 A. BALDUINO, Letteratura romantica dal Prati al Carducci, Bologna, Cappelli, 1957, p. 51.
4 F. ULIVI, Poeti minori dell’Ottocento italiano, Milano, Vallardi, 1963, p. 235. Gli stessi modelli si ritrovano anche in un altro poeta gallipolino, vissuto intorno alla metà dell’Ottocento, Tommaso Briganti, su cui cfr. G. RIZZO, Tommaso Briganti, inedito poeta romantico, Firenze, Olschki, 1984.
5 Cfr. R. NEGRI, Leopardi nella poesia italiana, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 3- 43 e G. LONARDI, Leopardismo, Firenze Sansoni, 1974, pp. 28-30.
6 N. CELLI BELLUCCI, Riscontri leopardiani nell’opera di Maria Giuseppina Guacci, in AA.VV., Letteratura e critica. Studi in onore di Natalino Sapegno, Roma, Bulzoni,1976, vol. III, p. 503.
7 G. PETRONIO, Giuseppe Macherione “Poeta della Patria”, in “Problemi”, n.88, maggio-agosto 1990, p. 126.
8. Ed elevava l’alma rileggendo, / O Pindemonte tenero e sereno, / O Dante sommo nel parlar tremendo, / O i salmi mesti del gran re guerriero, / E Geremia dolente, compiangendo / In balla la sua patria a lo straniero, / Tutto core Aleardi e sentimento, / E l’immortal Guglielmo or lene or fiero; / O di Leopardi l’angoscioso accento…”, Alla mia stanzetta dei Cuti, in S. STEVENS, Canti, Napoli, Giannini, 1879, p. 23. Da questa edizione sono tratte ovviamente tutte le nostre citazioni di versi della Stevens.
9 Da notare che questa espressione ricorda da vicino quella usata da A. Poerio nella sua seconda canzone A Giacomo Leopardi: “il disperato accento” al v. 54. Cfr. A POERIO, Poesie, a cura di N. Coppola, Bari, Laterza, 1970, p. 114.
10 I libretti delle opere di Bellini, Donizetti e Verdi costituiscono un’altra fonte del linguaggio poetico della Stevens. Diamo due soli esempi: “Patria degli avi miei, nobil paese (All’Inghilterra, p. 13): “Tombe degli avi miei, l’ultimo avanzo / d’una stirpe infelice” (Lucia di Lammermoor, atto II, scena V); “Quando contemplo lo stellato cielo, / E il casto raggio di silente luna” (Tristezza, p. 306): “Quando le sere al placido / chiaror d’un ciel stellato (Luisa Miller, atto II, scena VII). Evidente, in quest’ultimo caso, è anche il riferimento all’aria “Casta diva” della Norma di Bellini
11 B. CROCE, Aleardo Aleardi, cit., p. 72.
12 G. PETRONIO, Giuseppe Macherione “Poeta della Patria”, cit., p. 122.
13 In G. BERCHET, Poesie, a cura di E. Bellorini, Bari, Laterza, 19412, p. 74
14 Sulle ballate romantiche e tardoromantiche cfr. G. PETRONIO, Introduzione a Poeti minori dell’Ottocento, Torino, U.T.E.T., 1965, pp. 40-45.
15 Le citazioni dei versi leopardiani sono tratte da G. LEOPARDI, Tutte le opere, con introduzione e a cura di W. Binni con la collaborazione di E. Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969.