di Rosario Coluccia
Parole, parole, parole. Si intitola così la rubrica che oggi comincia su questo giornale. Il titolo allude ai contenuti fondamentali della rubrica, che tratterà della lingua italiana, che (come tutte le lingue del mondo) è intessuta di parole. Il titolo è una citazione: a molti sarà venuta in mente una canzone di Mina e Alberto Lupo, sigla di chiusura di una trasmissione televisiva del 1972, in cui un seduttore insistente e un po’ fuori moda, con frasi ammalianti snocciolate di continuo, cercava di sedurre una donna bellissima, sicura di sé e smagata, ben in grado di resistere a lusinghe superficiali. Ne scaturiva un duetto irresistibile, dove la sensuale voce recitante di lui era accompagnata dal sorridente controcanto di lei. Tutto il dialogo restava all’interno di una disputa misurata e a tratti ironica, senza eccessi verbali di alcun tipo. Quasi una riproposta in chiave novecentesca di uno dei testi più affascinanti della nostra poesia delle origini, il cosiddetto Contrasto di Cielo d’Alcamo, della prima metà del Duecento, che in 160 versi racconta la disputa amorosa tra «amante che prega» e «donna che nega», sottile scambio di battute tra uomo e donna, capace di toccare le mille corde del corteggiamento amoroso: «Rosa fresca aulentissima, ch’apari inver’ la state» ‘Rosa fresca profumatissima, che fiorisci in estate’, così si rivolgeva quell’uomo del Medioevo alla donna desiderata. Nulla di paragonabile alle profferte e agli assilli sguaiati con cui gli stalker dei nostri giorni tormentano donne che li rifiutano; utilizzando tutti i mezzi (compresi quelli digitali che ingigantiscono i messaggi), fino alle violenze fisiche e ai femminicidi di cui parlano troppo spesso cronache terribili.