Ad essi, stremati dalla fatica, salivano l’assenso e il plauso del Capitano e vice-podestà Daniele Dolfin, accorso tra i primi; ed infondevano lena. Il vescovo-cardinale Carlo Rezzonico, circondato dai frati, seguito dal clero e dal popolo, reggendo il Santissimo ‘in lunga processione penitenziale aggiravasi intorno all’ardente edificio, benedicendo quelli animosi che su per le chine, per gli spigoli delle muraglie, in cima alle cupole si affaticavano di troncar l’esca a un tanto incendio’. Nella cupola del Tesoro, pregna di fumo, si cimentarono brancolando i frati tenendo fra i denti spugne bagnate e ne trassero le sacre reliquie. Il padre Antonio Filarolo ne rimaneva ferito frangendo col pugno il grosso cristallo che custodiva il reliquiario della Lingua preziosa. In mezzo alle fiamme fecero prodigi di valore Bernardo Squarcina, l’architetto Sante Benato ed il giovane G.B. Tentori (o Tescari )1.
Domato l’incendio nei giorni successivi cominciarono le indagini per capire le cause e valutare le conseguenze del disastro. Andarono perdute importanti testimonianze storico-artistiche come il coro, gli organi, statue e parti di altari. Fu dato l’incarico al prof. Giovanni Poleni (1683-1761), docente di fisica presso l’Università di Padova, matematico, grande studioso e autorità in campo architettonico. Egli, accompagnato dal capitano Dolfin, dal deputato del Comune Andrea Forzadura e da due presidenti dell’Arca, compì il 9 aprile un accurato sopralluogo, scrisse una relazione (14 aprile 1749) quantificando i danni e stimando la cifra necessaria per il restauro della Basilica: 64.000 ducati. I lavori iniziarono subito e durarono quasi un decennio sostenuti da elargizioni pubbliche e private.
Il prof. Stefano Zaggia, docente dell’Università di Padova, architetto, apriva il suo articolo su “BO live”, nel 2019 cosi come iniziava una delle tante relazioni scritte nei giorni successivi all’incendio che aveva colpito nella notte tra il 28 e il 29 marzo 1749 la Basilica del Santo: “Alla vista di un incendio sì grande che sembrava un esemplare strepitio delle gran statue cadenti al suolo mezzo abbruciate, e mirandosi strisce di fuoco che avventandosi a’ luoghi anche remoti vi apportavano rovina e desolazione”. Sicuramente i sentimenti che provarono i padovani tutti in quei momenti sono stati gli stessi sentimenti di sbigottimento, di dolore e di terrore nel vedere le immagini trasmesse dai diversi sistemi di comunicazione e inerenti l’incendio di Notre Dame di Parigi nel tardo pomeriggio e la notte del 15 aprile 2019”3.
La tragedia che colpì il Santo ebbe cause banali: un lume o uno scaldino (Relazione dell’abate Giuseppe Gennari)4 per inavvertenza lasciato acceso da una povera vecchietta la sera del 28 marzo presso un confessionale a sinistra dell’ambulacro, di fronte alla cappella di S. Giuseppe; questo finì per appiccare il fuoco ai rivestimenti lignei del deambulatorio, da cui passò agli stalli in legno del coro (opera quattrocentesca di Cristoforo e Lorenzo Canozi) e di lì alle cantorie, agli organi, al baldacchino raggiungendo infine i tetti e le cupole. Questa credenza sembra avere qualche fondamento se già il 14 aprile la Presidenza dell’Arca stipendiò un “bastoniere” con il compito di girare per la chiesa e tenerla libera da questuanti5.
Dell’avvenimento furono scritte diverse relazioni6 e quasi tutte osservano che il primo avvistamento della presenza del fuoco era partito dal latrare intenso dei cani, custodi notturni della Basilica che richiamò il custode laico il quale si accorse delle prime grandi fiamme intorno all’una di notte e corse a svegliare i frati dando l’allarme all’intera città. Arrivò tra i primi il Presidente dell’Arca, Antonio Guerra che cercò di coordinare le operazioni possibili. Alle tre di notte arrivò il capitano-vice potestà Dolfin I che subito “pianse al vedere la desolazione del maggior tempio cittadino” e poi diresse energicamente le operazioni di vigilanza e di soccorso.5
Il fuoco partito dal confessionale di sinistra si era esteso subito verso destra invadendo cori, cantorie, organi, baldacchino, il campanile di destra e il castello di larice delle campane e poi alle cupole. Quattro cupole vennero distrutte, quella del coro, del presbiterio, di S. Felice e dell’Angelo.
Alla fine, dopo dieci ore ci fu lo spegnimento finale salutato come opera di coraggiosi ma anche “della mano divina che operava in nostro aiuto”.
Ci fu un immediato ripristino del culto liturgico, che fu reso possibile a soli due giorni dal rogo4.
Padre Antonino Poppi5 vede delle analogie tra i due famosi incendi di Basiliche cristiane: quello di Notre Dame il 15 aprile, il lunedì della settimana santa; c’era una gran “folla di parigini e turisti in silenzio, con il volto teso, molti in lacrime o in preghiera, seguiva…la progressiva devastazione del fuoco, sgomenti di fronte all’impotenza dei mezzi meccanici e dei soccorritori. Fortunatamente verso mezzanotte il fuoco cominciò a diminuire e, come talvolta avviene negli incendi, si spense da sé. Notre Dame era devastata, ma non perduta e soprattutto nessuna vita umana era perita a causa dell’incendio. Ancora imprecisata è l’origine del fuoco; a circa due mesi dall’accaduto la procura parigina della Repubblica ne attribuisce la causa in via ipotetica a un cortocircuito elettrico o a un residuo di sigaretta non spenta, incautamente gettata da un operaio addetto a un generale lavoro di restauro. Quello della Basilica del Santo a Padova avvenne il 29 marzo che era il sabato che precede la Domenica delle Palme; ci fu la provvidenziale assenza di vittime per il fuoco; il pronto accorrere degli aiuti e degli eroismi di generosi operai, il comune sentimento di disperazione e di tragica impotenza delle maestranze e delle autorità nei momenti più drammatici del rogo; medesima fu la corale partecipazione della città padovana raccolta attorno al suo santo patrono, l’arresto naturale del fuoco quasi per consunzione. Ma ci sono anche delle differenze come ad esempio il bottino del fuoco nella basilica patavina fu più tragico anche perché avvenne 270 anni prima quando la tecnica dello spegnimento era appena incipiente; la copertura del tetto restò salda se si tiene conto del fatto che a soli tre giorni dopo, il martedì 1° aprile si poté celebrare la messa a differenza di quanto avvenne a Notre Dame dove cadde parte della volta e solo due mesi esatti dall’incendio e cioè il 15 giugno si poté celebrare la prima messa”.
La prima relazione è anonima, ma è la più completa e affidabile, scritta per ordine del presidente della Veneranda Arca, il nobile Antonio Maria Guerra, che fu uno dei primi ad accorrere assistendo e seguendo il divampare dell’incendio nei diversi punti della Basilica, condivise l’angoscia e le lacrime dei frati e dei laici e i tentativi disperati di sottrarre alla distruzione “il tesoro più prezioso ch’ammiri e veneri Padova non solo, ma tutto insieme il mondo cristiano: la miracolosa lingua del Santo insieme con tante altre insigni Reliquie”. L’evento viene considerato quale punizione di Dio a motivo delle negligenze e irriverenze verso questo luogo tanto venerato, ma pure il riconoscimento della protezione del Santo che faceva spegnere il fuoco quando stava per divorare la cappella dell’arca5.
La seconda relazione rappresenta le memorie scritte dall’abate Giuseppe Gennari (1721-1800)4, opera assai ampia e ben informata, attenta alla devozione, al cordoglio e al coraggio dei padovani verso quell’inferno di fumo e di fuoco. Egli descrive anche i lavori di pulitura nei giorni 30 e 31 marzo che permisero di celebrare la prima messa martedì 1° aprile. Non sembra che l’autore abbia partecipato di persona all’evento e al racconto alterna rilievi critici nei confronti dei frati più intenti a mettere in salvo le Reliquie più che a spegnere il fuoco.
La terza relazione che fu stampata nello stesso mese ed anno dell’incendio è quella del conte Antonio Maria Borromeo e si presenta come la relazione ufficiale approvata dal capitano e vice-podestà di Padova, Daniele Dolfin; questa relazione, a differenza di quella del Gennari, mette in risalto il coraggio dei frati a strappare al fuoco le Reliquie del Santo, l’espandersi del fuoco, l’intervento del capitano Dolfin, le benedizioni del cardinale Rezzonico “che pregava il grande Iddio ad avere pietà e andava ripetendo di salvare “almeno la cappella del Santo, l’Arca del gran Taumaturgo, quelle ceneri da tanti popoli onorate, e il cuor gli diceva che sarebbero state immuni dall’orrenda catastrofe”. Dall’opera del Borromeo trassero ispirazione gli autori di due poemetti: “L’incendio del tempio di S. Antonio di Padova. Canti VI consacrati al Santo medesimo del sacerdote padovano don Vincenzo Rota” e “le Stanze per l’incendio seguito nel tempio di S. Antonio di Padova la notte antecedente a’ 29 di marzo 1749 del conte Domenico Mauro Borini6.
La quarta relazione è la più breve, forse scritta da un segretario comunale: descrive solo alcuni momenti dell’incendio, la commozione della città, parla dei cavalieri che si impegnarono a raccogliere i fondi per il restauro della Basilica. Il cardinale Rezzonico (divenuto poi papa con il nome di Clemente XIII) stanziò 400 zecchini, 1000 la Magnifica Comunità, 200 i canonici, 500 i mercanti della lana, 200 il capitano, 6.000 ducati il Senato di Venezia e 30.000 ducati raccolti a gara tra i cittadini, i devoti e altri cittadini stranieri5.
Un’altra relazione è di padre Bonaventura Perissuti (1727-1808)7 che nel 1749, ventiduenne, era studente di teologia al Santo e vide e si adoperò per salvare dal fuoco tutto ciò che si poteva e sottolinea il fatto che in tanta confusione “nessuno restò offeso né si ebbero furti”.
Nel 1816, padre Angelo Bigoni8 dedicava il capitolo X nel descrivere “degli incendi che danneggiarono questa Basilica” e dice “il più temibile incendio e il più dannoso fu quello del 29 marzo 1749 nel quale, se le fiamme invidiose della bellezza del tempio cercarono di distruggerlo, altro non fecero, che sempre più manifestare la tenera devozione dei Padovani e le infaticabili sollecitudini dei Padri del Convento verso del loro amorosissimo Protettore e Taumaturgo”. E ancora “la desolata popolazione andava ripetendo è perduto il Santo, Padova è perduta. Ma il Santo che dall’alto della sua gloria le somme sollecitudini scorgeva, e l’affetto dei suoi Padovani, con inusitato prodigio respinse egli stesso le fiamme che per ben tre volte dalla vicina torre uscendo, tentato avevano di investire la cupola che ne ricopre le ceneri preziose; e per tal modo ne represse la forza, ne dissipò la violenza, che all’istante videsi spento per intero quel fuoco” E ancora dice “Sarà sempre memorabile il nome del giovane Giovanbattista Tescari che solo, senza soccorso, col fuoco, che per ogni parte lo circondava, attese infaticabile di impedire i progressi dell’incendio desolatore, rimanendo egli stesso illeso a fronte degli innumerevoli incontrati perigli”.
Nel 1852 padre Bernardo Gonzati9 nella sua opera dedicò un capitolo all’incendio del 1749 descrivendo il dilatarsi del fuoco, le distruzioni, il dramma vissuto da tutti senza distinzione di ordine, grado, sesso ed età. Tutti accorsi per dare una mano o semplicemente gemere o gridare e pregare il loro amato protettore per “la salvaguardia almeno della sua cappella e delle sue ossa”. L’autore elenca i danni irreparabili e alla fine dice che “nonostante tanta rovina, Padova non aveva perduto il suo Santo”. L’autore si lamentava in quel periodo di come mai di un evento così importate non sia stata messa “una lapide che ne tramandi la memoria”. Ma nel 1855 i padri fecero scalpellare una finta lapide storica non scolpita ma dipinta che oggi non è possibile ammirare in quanto nascosta dall’affresco del noce del Santo (1985) di P. Annigoni (1910-1988). La falsa lapide recita.10
An. MDCCXXXXIX IV Kal. April
Templum Magna Ex Parte Fortuito Incendio Absumptum Pia Cultorum
Largitate suffragante in Splendidiorem Formam Restitum Est.
29 marzo 1749
Il tempio, in gran parte distrutto da un incendio fortuito, fu restituito alla bellezza più splendida, grazie alla generosità dei devoti.
Bibliografia
- www. vigilifuoco.it Storia VF Padova compressed. La Basilica del Santo pp 23-24
- M. Potassini Quando la Basilica fu a rischio. Messaggero di sant’Antonio, ottobre 2023.
- S. Zaggia. 29 marzo 1749: sant’Antonio va a fuoco. Bo Live 21 giugno 2019.
- G. Gennari. Memorie inedite dell’abate Giuseppe Gennari sopra le tre chiese in Padova: Cattedrale, Santa Giustina e Santo. Tipografia del Seminario, 1842, pp 13-19.
- A. Poppi. L’incendio della Basilica di S. Antonio nelle narrazioni inedite di testimoni oculari. Note e ricerche Il Santo LIX 2019, pp 451-46.
- Archivio Sartori. Documenti di storia e arte francescana. Vol. I Basilica e convento del Santo. A cura di G. Luisetto. Biblioteca Antoniana-Basilica del Santo Padova 1983.
- B. Perissuti. Notizie divote et erudite intorno alla vita ed all’insigne Basilica di S. Antonio di Padova. Padova 1796, pp 77-80.
- A. Bigoni. Il forestiero istruito delle meraviglie e delle cose che si ammirano internamente ed esternamente nella Basilica del Gran Taumaturgo S. Antonio di Padova. Art. X “Degli incendii che danneggiarono questa Basilica” Tipografia Crescini, Padova, 2° edizione 1823 pp 55-59.
- B. Gonzati. La Basilica di S. Antonio di Padova descritta ed illustrata. Antonio Bianchi Edizioni, Padova 1852, cap. XXV “Memorabile incendio del 29 marzo 1749, sabato precedente la Domenica delle Palme”, pp 99-104.
- V. Zaramella. Guida inedita della Basilica del Santo. Centro Studi Antoniani, Padova 1996.