di Antonio Devicienti
L’inesauribile, spesso misterioso territorio della matita (Bleistiftsgebiet) di Robert Walser ci chiama e c’interroga ché, pur essendo noi a tentarne l’attraversamento, ne siamo in realtà provocati e sfidati e non c’intestardiremmo a decifrarne i segni, a interpretarne i concetti se da quell’arduo territorio non ci raggiungesse la suggestione di enigmi che ci affascinano e si profilano quali essenziali per il nostro esistere.
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La leggerezza della matita tra le dita, gli spigoli oppure la rotondità del fusto, l’acuminato cono della punta che poi, scrivendo e\o disegnando, si smussa arrotondandosi, costringono a non dimenticare mai, procedendo nella scrittura, la determinante presenza dello stesso strumento di scrittura, le sue esigenze (non poche, in effetti) nel procedere, così che tale costrizione va a coincidere con il senso di libertà e di creazione che irradia dal testo o dall’immagine nel loro formarsi: la maggiore o minore frequenza nel temperare la matita condiziona i tempi di stesura, marca o assottiglia gli spessori del segno, e la necessità che sentono le dita di variare il contatto con lo strumento scrittorio, di farlo ruotare di molto o di poco, d’inclinarlo, il rapporto che muta con la mano man mano, appunto, che la lunghezza della matita diminuisce, tutto questo andrà perso nel testo stampato o pubblicato in formato digitale, ma è un tutto che appartiene alla dimensione fisica e materica del testo stesso. E sulla pagina s’imprimono pure i graffi di un’unghia, la traspirazione della mano se fa caldo in maniera eccessiva, le ombreggiature e le attenuazioni della grafite se un polpastrello vi è passato sopra inavvertitamente – ovviamente il foglio recherà sul recto i solchi più o meno pronunciati se più o meno pronunciata sarà stata la pressione della matita sul verso.