Esercizi della mente 5. Verso il nulla, ovvero la novella del dottore di Gianni Celati (parte seconda)

Ogni rapporto diretto tra la gigantessa e il medico sembra impossibile, impedito dallo stato di indifferenza, di indolenza, di ottusità della donna. Costei, donna senza età (il motivo tornerà a p. 136), volge lo sguardo al televisore, entro cui svanisce ogni suo pensiero, desiderio, sentimento. Il televisore significa qui l’esclusione del medico dalla comunicazione con la gigantessa e significa anche l’ottusità della donna interamente risucchiata nelle false rappresentazioni dello schermo. A nulla valgono i regali, i cioccolatini che la donna malata non può neppure mangiare, poiché è stata appena operata di cistifellea, e che vengono mangiati dalla madre (“…li mangiava la madre” p. 133); al dottore non rimane che ricercare di continuo la mediazione della madre che non smette di sorvegliarlo (“La madre vestita di nero sorvegliava sempre la scena” p. 133). E’ appena il caso di dire che le due donne sanno bene come approfittare dell’ossessione del dottore. Questi, pur “titubante” a causa delle contraddizioni tra quanto appreso sulle voci e quanto invece poteva accertare nella realtà (la donna delle voci, per esempio, soffriva di calcoli renali e non di cistifellea, come la gigantessa), fa esperienza di una verità diversa, oltre l’insignificanza delle apparenze e delle false rappresentazioni. La gigantessa-Sibilla non risponde direttamente a chi la interroga, se non attraverso la mediazione della madre, ministra o sacerdotessa della Sibilla, in una lingua che solo la madre può tradurre. Ma la madre, si è detto, non è per nulla attendibile. Il dottore, pertanto, ha la rivelazione di quanto va cercando quando, approfittando dell’assenza della madre, cioè in assenza di ogni mediazione, riesce a contemplare il corpo della gigantessa dormiente:

Non l’aveva mai vista dormire, e inoltre non l’aveva mai vista con vestiti diversi dalla tuta da ginnastica. Ora indossava un vestito a  fiori che lui le aveva regalato,  cioè le aveva regalato la stoffa e la madre lo aveva cucito. Stava rannicchiata sul fianco,  con le ginocchia quasi  vicino al viso, e le  grosse cosce tutte scoperte in quella posizione. Anche l’incavo tra le natiche era scoperto, tra due ammassi di carne flaccida e diafana. Teneva il pollice vicino alla bocca, come se avesse appena smesso di succhiarlo. Spesso, mentre la visitava, il dottore l’aveva vista mettersi in bocca il pollice,  tenendolo tra le labbra socchiuse senza succhiarlo. Ora rannicchiata sul fianco, teneva il pollice vicino alle labbra. Ma era tanto rilassata e pacifica nel suo corpo  enorme, tanto leggera la sua respirazione nel sonno, che lui non riusciva a smettere di spiarla. E’ entrato nella stanza, dove c’era quel tanfo di fiori vecchi, lenzuola, odore di panni sporchi, di sudore. Sul letto intorno a lei erano sparsi spilloni, bambole, collane, braccialetti, anelli. La monumentale ragazza dormiente teneva vicino al grembo degli anellini, come se avesse giocato a provarseli fino a poco prima. (p. 135)

La gigantessa-Sibilla dal vestito fiorito, questa Venere grassa e malata, rappresentazione vivente dei paesaggi desolati che abbiamo imparato a conoscere, dorme placidamente in posizione fetale.  Sembra essersi addormentata dopo aver succhiato il pollice, come fanno i bambini; i suoi  giochi infantili e i suoi vezzi muliebri giacciono abbandonati sul letto come oggetti inutili. Tutto intorno a lei è squallido, sporco,  ributtante, ma il suo corpo parla al protagonista, ed esprime rilassatezza, appagamento, oblio, come se un dio lo possedesse e parlasse attraverso di esso. Il dottore non può far altro che contemplarlo:

E’ rimasto a contemplarla seduto su una sedia, lei non si è mossa. Tutto quello che c’era intorno, tutto il mondo intorno alla casa e  fino al cielo, in quel momento si è calmato o fermato. Dice che tutto era in ordine in quel momento, nonostante la confusione della stanza, con calzini per terra, un cucchiaino sporco, resti di biscotti sbriciolati sul letto, riviste abbandonate sulla sedia. Bisognava soltanto stare fermi e tutto diventava calmo e senza desideri, senza doversi  più chiedere se la vita va  bene o va male. Dice che aveva voglia di abbandonarsi, non pensava più alla Sibilla delle montagne. Anzi pare che avesse la sensazione d’essere già nell’antro della Sibilla che doveva dirgli il suo destino. Sono cose che non si possono spiegare, dice lui, e io qui le do come mi vengono in mente. Il dottore aveva una gran voglia di addormentarsi,  guardando la ragazza gigantesca che  dormiva  così bene sul letto, con una  faccia che adesso riconosceva, e anche lei senza desideri. Un viso da bambola di celluloide, ovale, con la bocca piccola come quella delle bambole. Viso da bambina piccola, mai cresciuta, ma pieno di grinze, come se avesse una pelle che sotto la superficie rosea era quella d’una vecchia. (pp. 135-136)

Nel suo antro, la Sibilla dà finalmente il responso al dottore; un responso che riguarderà non più il suo destino individuale, ma quello di tutti gli uomini.

La contemplazione del dottore può essere letta, infatti, come un momento sacro di venerazione della Sibilla, questa Magna mater malata, che nell’abbandono del sonno restituisce a chi la contempla il senso della vita e della morte, e nel suo essere giovane e vecchia allo stesso tempo, la vittoria sul tempo e il senso della terrena caducità; e questo responso non è affidato alla parola, ma ad un’immagine “monumentale”, l’immagine di una donna che il dottore contempla nella sua seminudità, solo velata da una veste fiorita, un grande corpo malato immerso nel sonno.  La vita non è un bene e non è un male, essa è simile al sonno della gigantessa privo di desiderio e di dolore, unica risorsa del corpo sofferente dell’umanità.  La donna somiglia ad una bambola di celluloide senza età, obesa, immobile e impassibile. La verità ultima è questa immobilità, questo sonno della ragione che genera oblio e abbandono ad uno stato di rilassatezza mentale e fisica, nella quale il corpo è libero da ogni desiderio perché non ha coscienza di sé.

Non è questo un altro esempio, dopo quello delle due false-vere aiutanti, Egle e Marilù, di metamorfosi dell’impensato? Chi avrebbe mai pensato, infatti, che il corpo di questa donna significasse ben altro che le misere intenzioni di una truffatrice?

La madre. Il rapporto del dottore con la madre (“Era una di quelle donne vestite di nero delle campagne…”  p. 129) sin dall’inizio è improntato al sospetto: “… appena fuori dalla macchina lui la trovava immobile sulla porta, che lo fissava salutandolo con un cenno del capo. Dice che doveva affrettare il passo per l’imbarazzo che gli davano quelle occhiate”. (p. 129). La madre è l’aiutante della gigantessa malata, che  ella accudisce e difende contro le insidie del mondo (il dottore potrebbe rivelarsi una di queste insidie); ma si trasforma nella ministra di un culto che deve rimanere segreto. Essa interrompe la contemplazione del protagonista, rimproverando il dottore, “con aria severa”, d’aver avuto intenzione di violentare la figlia malata:

[Il dottore] Dice che in quegli sguardi c’era l’insinuazione che lui avesse voluto violentare la  gigantessa, o toccarla o qualcosa del genere, comunque un  rimprovero per averlo trovato nella stanza della  figlia. p. 136.

Il dottore ha commesso un sacrilegio ed ora deve sottostare alla volontà della madre,  che consiste in una punizione e, al contempo, in una ricompensa sessuale. La madre schiavizza il dottore, sottomettendolo a mille diversi lavori domestici, ed insieme gli offre il suo corpo come sostituto di quello della figlia malata. Ma il dottore è attratto sessualmente proprio dalla madre, non dalla figlia. Sin dalla p. 129  è scritto che il dottore “la vedeva spostarsi movendo pesantemente le anche e i fianchi”, osservazione che ritorna a p. 137,  dove si legge che il dottore “la guardava allontanarsi movendo il grosso sedere nel vestito nero, ancheggiando con tutto il suo peso”, il che era già stato anticipato nelle visione onirica di p. 124.

Le sue  grosse natiche, con la carne che tremolava sotto il vestito, in certi momenti lo eccitavano. Quando gli è passata vicino ha allungato la mano per toccarla, le ha sfiorato il fianco. Lei non ha detto niente, s’è voltata a fissarlo con sguardo severo, aspettando le sue mosse. (p. 138)

Segue il rapporto sessuale (“La cosa si è ripetuta due volte, poi lui non ne aveva più voglia.” (p. 139), col quale il dottore vorrebbe annullare il proprio asservimento, mentre invece ottiene l’effetto contrario:

[La madre] Ha fatto tutto senza un sospiro o un ansimo, rendendolo ancora più succube col suo mutismo, ancora più schiavo, poi rivestendosi tranquillamente e andando via senza salutarlo (p. 139).

La madre offre il proprio corpo, cioè quanto crede (fraintendendo) che il dottore desideri ottenere dalla figlia; nello stesso tempo, ella è la sacerdotessa della Sibilla, e quindi deve impedire che il corpo sacro di sua figlia venga violato, poiché chiude in sé il segreto che il dottore ha appena scoperto. E così la madre, prostituendosi (non è forse questa la sacra prostituzione degli antichi?), rende schiavo l’uomo che ha osato strappare, in un momento di sua disattenzione, il responso della Sibilla. Ogni contatto col dio, come sapevano gli antichi, non rimane mai impunito, perché esso è un atto sacrilego. E il dottore pagherà duramente il prezzo del suo azzardo.

Ma ecco intanto un nuovo rovesciamento della situazione, una nuova metamorfosi dell’impensato: proprio quando la posizione del dottore, schiavo della madre, diventa insostenibile, cambia l’atteggiamento della figlia nei suoi confronti:

Adesso la gigantessa sembrava che lo trattasse come un padre o uno zio, e per quanto non gli parlasse mai, non sbuffava più a trovarselo vicino. Lui però aveva paura di fermarsi a guardarla, come avrebbe voluto, a studiare la sua indolenza senza desideri, perché la madre gli avrebbe puntato addosso i suoi occhi duri che lo confondevano subito. Ad ogni modo aveva già capito il suo destino, non c’era più bisogno di consultare la Sibilla (p. 139).

Le due povere donne tornano ad essere le misere truffatrici che abbiamo imparato a conoscere (che anche il dottore ha imparato a conoscere) grazie alle indicazioni di Marilù. Esse comprendono che il dottore, dopo aver scoperto la verità, ha perso ogni interesse per loro e che presto le abbandonerà. La gigantessa ora è diventata benevola, non prova più fastidio e non è più indifferente dinanzi al dottore, mentre il dottore, una volta sopraggiunto l’amico, non risponde più alla richiesta di cure della donna.  

Il dottore, in realtà, si è trasformato in un barbone febbricitante, vittima della verità rivelata della Sibilla; e d’altro canto, inutilmente la madre insiste nel ruolo di protettrice della figlia; la madre ora è invadente e seccante, tanto che il dottore non esita a scacciarla via in modo deciso, rifiutandosi, lui che all’inizio del racconto era stato caratterizzato come un inguaribile altruista, di prestare soccorso alla figlia che chiede il suo intervento medico. Giunto l’amico in suo aiuto, il dottore “ha cacciato la donna vestita di nero con due strilli da isterico”. (p. 140). Il rapporto con le due donne del destino, dopo essere passato attraverso le varie metamorfosi dell’impensato, con questi due strilli, ha termine.

L’amico è il primo e l’ultimo personaggio della novella, la apre e la chiude con la sua anonima, discreta, ma determinante presenza. Si ricorderà che, quando le voci per la prima volta giungono al dottore, questi è “in barca a vela con un amico”; e tuttavia

Non era il caso di raccontare la storia delle voci all’amico, che pensava solo alla barca a vela, né a sua moglie che si ingelosiva molto facilmente. (p. 121)

L’amico si situa tra i personaggi che vivono irretiti nelle false rappresentazioni, come la moglie, i dottori dell’ospedale, i figli del dottore, ecc. Eppure, questo è proprio l’amico che ricompare alla fine del racconto (Celati scrive “l’amico”, facendo intendere, con l’uso dell’articolo determinativo, di voler richiamare in scena proprio l’amico della pagina iniziale della novella), è proprio lui a tirar fuori il dottore da una situazione molto penosa. All’amico è assegnata la funzione importantissima e, direi, decisiva, di prezioso aiutante, questa volta un aiutante per nulla ingannevole, del protagonista.

Siamo alla sera d’inverno in cui il suo amico è andato a prenderlo, e l’ha trovato febbricitante (p. 140).

Su quest’ultimo personaggio, che sulle prime appariva dimenticato nella sua insignificanza, ora si proietta la luce di una trovata verità. L’amico diventa il primo destinatario del racconto scritto dal dottore, figura dell’ipotetico lettore comune, cui Celati affida il suo racconto. Si noti che l’amico interviene nel momento in cui il dottore finisce di scrivere la sua storia. Conta poco, come si diceva, che questo amico ami “solo le barche a vela”, ecc.. Nella logica delle metamorfosi dell’impensato, acquista un senso che egli sia chiamato a rivestire il ruolo fondamentale di primo destinatario del racconto del dottore. La volontà del dottore è chiara e imperiosa: egli “vuole che l’amico lo [il racconto del dottore] legga lì, davanti al fuoco” (p. 140), e non tollera neppure un commento:

L’amico ha finito di leggere il racconto. Il dottore dice che non vuole sentire commenti, odia i commenti. Ma vorrebbe che il suo racconto fosse pubblicato,  perché allora qualcuno potrebbe leggerlo e scrivergli per metterlo sulla buona strada, nel caso che la famosa Milena sia davvero una persona viva e non solo una fissazione della sua mente. Lui spera ancora di riuscir a sapere se la donna con la voce fiera che lo aveva affascinato è la gigantessa indolente, oppure un’altra persona, oppure una chimera. Ma per capire tutto questo ci vuol molto tempo, dice il dottore, il tempo di lasciarsi andare e perdersi del tutto, e il tempo di risalire la china in cerca di altro. Sì, e bisogna saper tirare avanti senza nessuna meta, senza nessun desiderio che ti porti dietro a sempre nuove chimere. E’ questo il senso del destino, secondo lui. (p. 141)

La verità è una continua ricerca della salvezza, che il racconto del dottore ha il compito di invocare dagli altri,  richiedendo loro di interpretare il ruolo essenziale di aiutanti di chi racconta, ovvero di essere messaggeri e latori di notizie sul proprio destino, cioè anch’essi narratori, in uno scambio di ruoli che è consustanziale alla natura di ogni racconto.  Da questo punto di vista, essenziale diventa la figura anonima dell’amico, come necessaria risulta la volontà del dottore di pubblicare la sua storia perché gli altri, tutti gli altri, ovvero tutti i lettori, possano conoscerla e aiutarlo con i propri messaggi. La storia scritta dal dottore è appunto una richiesta d’aiuto, mentre la storia che racconta Gianni Celati suggerisce a tutti noi qual sia il compito che oggi è possibile attribuire alla letteratura, che è quello di ricercare il senso del nostro bisogno di stare assieme (vedi l’esergo di Celati al presente lavoro); una ricerca che non garantisce la salvezza individuale o collettiva, bensì consiste in un appello al lettore,  non richiesto di commenti, ma solo di notizie sulla comune condizione umana. Come si vede, Leopardi della Ginestra agisce ancora, in questo modo tutto particolare, nella nostra letteratura. Raccontare una storia richiede espressamente l’intervento attivo dell’altro, dell’amico, dell’uomo comune, del lettore: solo in questo mutuo scambio sussiste la possibilità di un cammino comune verso il nulla. Questo è il messaggio di Celati, come credo di interpretarlo nella novella del dottore.

Conclusione

E’ importante, dunque, che l’amico sia connotato come un uomo qualunque, proprio nel senso che Giorgio Agamben dà a questo aggettivo (non <<“l’essere, non importa quale”, ma “l’essere tale che comunque importa”>>[1]. Anzi, il fatto che l’amico sia l’altro di cui non si può fare a meno, sebbene esso si situi nella polarità di coloro che soggiacciono alle false rappresentazioni della realtà, la sua anonimità, tutte queste peculiarità dell’amico, riunite insieme, danno luogo ad un personaggio dal grande valore metaforico, nel quale si riassume il senso del destinatario comune dell’opera, il lettore qualunque, cioè ogni lettore che sia possibile immaginare o raggiungere; “l’essere tale che comunque importa”, presenza imprescindibile nella narrazione, a partire dalla quale e verso la quale la ricerca del dottore acquista un significato per nulla nichilistico, ma risolutivo di ogni seria ricerca letteraria.

Ritornano qui utili le considerazioni di Celati sulla meraviglia, che, come si è detto, non è solo la sorpresa che nasce dagli eventi raccontati,  ma implica un destinatario chiamato a cooperare con lo scrittore nella narrazione di una storia: 

La questione è che nella novella la sorpresa non nasce da un segreto da svelare, né da un’informazione trattenuta, bensì da qualcosa di impensato che germoglia su un terreno in comune tra chi parla e chi ascolta. Germoglia da attese poste all’inizio, nel riassunto dell’esordio, ma senza retroscena. Perciò l’ascoltatore è messo al corrente e portato subito su un terreno comune con la cerimonia introduttiva: “Parliamo di questo”. Come quando inviti uno a casa, e la cerimonia dell’accoglimento colma le distanze dell’estraneità, portando l’altro su un terreno comune.[2]

Quando un ospite è a casa tua è come se tu ospitassi tutto il mondo. Nell’angustia delle lettere contemporanee, che uno scrittore si ponga il problema del rapporto col lettore e, dunque, di intrattenere uno scambio dialogico con esso, individuando nel lettore qualunque non il consumatore di una merce preconfezionata, bensì il suo aiutante, è fatto da non sottovalutare. Tra scrittore e lettore s’instaura un rapporto fondato sulla meraviglia, e cioè non sulla convenzionalità e sull’ovvio, bensì, sulla cerimonia, intesa come momento rituale di conoscenza reciproca e di ricerca di un terreno in comune tra chi parla e chi ascolta; il che vuol dire, nell’ambito letterario, che la meraviglia tiene insieme narratore e lettore, dotandoli di una comune volontà di scrivere e leggere una storia.  La figura dell’anonimo amico del dottore credo che significhi bene questo tipo di rapporto tra chi scrive (il dottore) e chi è invocato come primo destinatario del racconto (il lettore-amico), col quale è possibile stringere un patto narrativo simile a quello che lega due ospiti che si dicono amici e colmano con la cerimonia dell’accoglimento le distanze dell’estraneità.

L’amico non capisce quanto il dottore dice a proposito di strane figure che egli “rivede” sul molo:

Mentre l’amico legge il racconto, il dottore rivede quelli sul molo, operai, scioperanti,  girovaghi, non sa, che nel mattino stavano là contro il cielo, contro le nuvole, contro i cavalloni del mare che si sollevano in altissime ondate. L’amico non sa di cosa stia parlando. Forse sta parlando di qualcosa che ha visto alla televisione…. (p. 140)

L’amico crede che il dottore stia delirando, e si spiega quelle immagini visionarie con l’influenza della televisione, di cui lui stesso probabilmente è passivo fruitore, senza sapere che, quand’anche così fosse, non cambierebbe nulla nel destino dell’uomo, ben simboleggiato dalla visione delle figure anonime che si stagliano sul molo, sulle quali incombe la tempesta: sono tutti gli uomini in attesa che il mare li inghiotta. Fuor di metafora, nella conclusione catastrofica è indicato il senso della finitudine che accomuna tutti gli uomini (il mare come metafora del nulla che incombe), a cui nessuno può sottrarsi. Le voci che vengono da terra questa volta non invitano più, come all’inizio, a ricercare il senso della vita, ma danno una risposta chiara e definitiva a questa ricerca con l’annuncio via radio di una terribile tempesta. Il mare idillico della scena iniziale che cullava il rientro in barca dei protagonisti si è trasformato alla fine nel mare portatore di morte, che non risparmierà nessuno.

Così Celati, dopo averci fatto percorrere luoghi desolati in compagnia d’un personaggio ossessionato dalle voci, coi suoi falsi aiutanti che continuamente si trasformano grazie alle metamorfosi dell’impensato in veri aiutanti dell’inchiesta, fa emergere dalla favola meravigliosa una dura verità: che non esiste per l’uomo un destino di salvezza né individuale né collettiva, e che tuttavia questa consapevolezza del nostro essere mortali, cui conduce la ricerca del dottore, non deve mai farci dimenticare che verso il nulla non siamo mai diretti da soli, ma in compagnia di tutti gli uomini. Quella cosa inutile che si chiama letteratura racconta appunto questo viaggio, ed è bello pensare che così essa fondi l’unica comunità possibile.

[2002-2005]


[1] Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 9.

[2] Elogio della novella, cit., p. 5 (le sottolineature sono mie).

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