Bernardini, la fierezza della scrittura periferica

In precedenza avevamo avuto dei contatti e degli incontri, insieme avevamo partecipato ad eventi. Gli facevo avere regolarmente il giornale, fino a quando mi chiese di non inviarglielo più, probabilmente per dissenso politico o più semplicemente per non ricevere un giornale senza pagarlo. Riteneva che i beni culturali, libri e giornali, dovessero avere un prezzo. Su questo aspetto tornava spesso con punte di polemica in un ambiente in cui si riteneva che i libri si dovessero regalare, individuando in questo una delle tante “difficoltà della provincia”. Per lui l’acquisto di un libro era già un riconoscimento all’autore.

Sul numero di gennaio-febbraio di quell’anno (2013) gli recensii Ed io parlo, scrivo e fumo. Evidentemente trovò di suo gradimento quanto ebbi a dire nella circostanza se di lì a poco nel maggio di quell’anno mi concesse un’intervista e a dicembre mi chiese di pubblicargli la poesia Sulla battigia, dedicata a sua moglie spentasi da pochi giorni. Riallacciammo i rapporti in un clima più disteso e meno prevenuto. Belle le sue testimonianze di vita relative alla sua formazione inviatemi per pubblicarle.

La mia storia con lui risale al 1983 quando gli chiesi di pubblicare il suo racconto “La Kasbah di Taurisano”, apparso sulla rivista fiorentina “Il ponte” nel 1957, la rivista fondata da Piero Calamandrei e all’epoca diretta da Enzo Enriques Agnoletti. Mi rispose che per quel racconto aveva avuto un compenso e che avrei dovuto chiedere l’autorizzazione al direttore della rivista. Colsi una sorta di fastidio nelle sue parole, quasi che non gradisse finire in un piccolo giornale di paese, fatta salva ogni altra considerazione di carattere politico, che nei rapporti umani non manca mai.

Bernardini, come tantissimi altri, dovette rivedere molte cose su cultura e politica dopo la frana di Tangentopoli, soprattutto la pregiudiziale di appartenenza: stare con la sinistra non era di per sé garanzia di bontà come stare con la destra non poteva essere motivo di respinzione. Fu una sorta di sentimento comune che si diffuse nel Paese dopo tanta delusione, per cui gli uomini e le cose andavano valutati singolarmente nel merito.

Da allora il mio rapporto con lui cambiò, forse anche per la mediazione del compianto Luciano Graziuso, suo vecchio collega, che voleva bene a lui e a me. Gli ho poi pubblicato poesie e testimonianze, soprattutto dopo la morte della moglie, che lo abbatté molto e molto lo addolcì. Tante telefonate, nel corso delle quali mi elogiava per i miei editoriali anche se non sempre li condivideva; e teneva a dirmelo. Si leggeva “Presenza” in ogni suo dettaglio, ne discuteva con me i contenuti in lunghissime telefonate. Parlava lentamente e sillabando come se avesse la preoccupazione di non essere sentito e compreso bene.

Fra il 2014 e il 2015 mi chiese di pubblicargli i racconti Il Vecchio e l’Ombra, poi raccolti in volume con questo titolo (Esperidi, 2016), che mi fece avere con dedica.

Il nostro rapporto tornò a farsi complicato quando apparve su “Brogliaccio” la rubrica “La poesia” firmata da Viator, nella quale si commentava brevemente un testo poetico per lo più di autore salentino. Mi chiese più volte chi fosse Viator e alla mia risposta che non potevo rivelarne l’identità probabilmente si convinse che fossi io e che non volessi dirglielo. Aveva ragione. “Voi salentini siete esseri strani e complicati” – mi disse – rimarcando la sua “non salentinità”. Lui, infatti, si sentiva un “sincero abruzzese”. Nell’intervista che gli feci per i suoi novant’anni (maggio-giugno 2013) alla mia domanda che cosa intendesse per “sincero abruzzese” mi rispose: “Risiedendo in Abruzzo, più precisamente a Pescara, ho avuto l’impressione di trovarmi in mezzo ad una società semplice, schietta, senza infingimenti e riserve mentali, ‘pane al pane, vino al vino’, laddove il salentino spesso è armato d’una dialettica stringente, a volte tortuosa, non priva di sofismi, bizantineggiante o barocca (antichi retaggi?)”.

Bernardini è stato un grande e il suo rapporto difficile con la provincia gli dà ragione anche se non gli rende giustizia. È stato uno scrittore alle prese con un ambiente avaro di stimoli e di riconoscimenti. Forse il suo rivolgersi a chi o a cosa lo circondava, inevitabilmente particolare e limitato, gli impedì uno sguardo oltre. Amava considerarsi uno “scrittore periferico”. In realtà la sua scrittura era calibrata sull’uomo nella sua dimensione filosofica, antropologica e sociologica, come dimostrano le sue ventisei opere fra romanzi, poesie e saggi. La sua ironia era lo spontaneo meccanismo di difesa dall’indifferenza ambientale. Nel 1957 ricevette il Premio Salento e nel dicembre 2013, dopo oltre cinquant’anni, fu finalista al Premio Firenze, sezione narrativa, col libro Il tempo della memoria. Il che dimostra una formidabile tenuta creativa, tipica dei grandi scrittori.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 12 gennaio 2024]

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