Un evento imprevedibile e inquietante turba la tranquillità idillica del quadro iniziale. Sembra che felicemente stia per concludersi una gita in barca, mentre la luna splende, il mare è calmo, e il vento spira da terra, quando da molto lontano (“da una distanza di almeno dieci chilometri” p. 121) il vento trasporta alcune voci fino alle orecchie del dottore. D’ora innanzi nulla sarà più come prima. Il dottore inizierà la sua inchiesta che lo condurrà in diversi luoghi, fino al ritrovamento di coloro che considererà, mai definitivamente, come le persone cui appartengono le voci udite quella sera d’estate. E’ in azione qui un meccanismo narrativo ricorrente nelle novelle di Celati. Per fare qualche esempio, tratto sempre dalla raccolta Cinema naturale, nella Storia della modella l’evento insolito che mette in moto il racconto è la perdita del perfetto accento inglese da parte della protagonista; in Non c’è più paradiso la storia della cardiologa e del funzionario televisivo dipendono strettamente da quanto è accaduto a Tugnin, che improvvisamente s’è messo a parlare con Dio; e in Cevegnini e Ridolfi la storia inizia a partire dall’apparizione della bella donna nera dal turbante turchese. Così, in Notizie ai naviganti la macchina narrativa si mette in moto quando il dottore sente le voci provenienti da terra.
La narrazione viene in parte delegata al protagonista, il dottore, il quale “dice” (p. 122 e poi, nelle pagine seguenti, numerosissime volte). Il dottore scriverà la storia della sua inchiesta, che noi non conosceremo nella sua versione, se non limitatamente a quanto il narratore riferisce. Il verbo “dice” significa che il narratore riporta quanto sa direttamente dal protagonista. Ma la narrazione non si esaurisce in questo riferire. Vale la voce del narratore in prima persona che integra con la fantasia quanto non è detto da altri: “Cerco di immaginare questi dialoghi con la cartomante…” (p. 127); “Qui vedo il dottore…” (p. 131), o sposta l’attenzione del lettore: “Veniamo a un momento importante del racconto…” (p. 127). Talvolta nel giro d’un frase si leggono entrambi i punti di vista (“Così racconta il nostro dottore, che qui immagino mentre…” (p. 128); “Sono cose che non si possono spiegare, dice lui, e io qui le do come mi vengono in mente” (p. 135): come dire che il dottore racconta, ma le sue parole vengono affiancate a quelle del narratore in prima persona, senza che tra i due punti di vista si stabilisca alcuna subordinazione. Può anche accadere che il narratore dichiari la propria parziale ignoranza (“Cosa sia successo poi quella sera, non so…”, p. 128), oppure che i due punti di vista si sovrappongano e finiscano col coincidere, come per esempio nel momento dell’incontro tra il dottore e le due donne, in cui il racconto è sottoposto ad una duplice preterizione, del narratore e del dottore: “Cosa sia successo poi quella sera, non so. Mi sembra che il dottore abbia avuto un vuoto di memoria, o forse non ha mai voluto parlarne. Non importa, andiamo avanti.” (pp. 128-129).
In definitiva, sono due i punti di vista principali: quello del dottore che spesso “dice”, e quello del narratore che riferisce quanto sa o immagina, e quando non sa qualcosa, lo ammette a chiare lettere. Il dottore è indotto al racconto della sua vita da una necessità pratica e comunicativa (“[alla fine della storia il dottore] vorrebbe che il suo racconto fosse pubblicato, perché allora qualcuno potrebbe leggerlo e scrivergli per metterlo sulla buona strada…” p. 141), mentre il narratore ha una necessità affabulatoria, di orchestrazione della narrazione, di integrazione immaginativa di quanto il protagonista non gli ha riferito. Nell’incipit della novella (“Questo racconto parla d’un dottore…”) Celati registra l’assenza di fondo d’un narratore autoritario; il racconto parla di sé, secondo una strategia polifonica, con la quale il narratore riporta il punto di vista del dottore, che egli ha sentito dal dottore stesso o da altri, poco importa; la narrazione è, dunque, un “racconto d’un racconto già sentito”, un “ridire qualcosa che è già stato detto”, per usare le parole che lo stesso Celati usa per descrivere la novella tradizionale[1].
Il tempo: le quattro stagioni
Il tempo della storia ci riporta ad “alcuni anni fa” (p. 121), cioè ad un recente passato, a partire dal quale si sviluppa un’azione priva di precisazioni cronologiche che non siano quelle delle stagioni dell’anno, con qualche salto cronologico. Così scandito, il tempo delle stagioni accompagna lo stato d’animo del protagonista e ne sottolinea la condizione psicologica. L’azione complessivamente ha la durata di circa due anni e mezzo.
L’inizio della storia vede il dottore in barca a vela d’estate. L’estate è la stagione della gita, del diporto, della vacanza, dell’apparente spensieratezza; è il tempo privo di senso dell’uomo moderno, del turista, il tempo dell’ovvio e dell’insignificante, che improvvisamente e inopinatamente viene ad essere turbato da quelle che sembrano essere le voci del destino. L’estate è il tempo in cui tutto, anche la cosa più inverosimile (le voci “venivano da terra, da una distanza di almeno dieci chilometri” p. 121) può accadere. Un’epifania fonica invita ad una ricerca di senso nell’insensatezza vuota dell’estate.
L’inchiesta del dottore comincia in realtà solo dopo qualche settimana (“Passa qualche settimana” p. 123), al principio dell’autunno, che colora di grigio un paesaggio privo di ogni presenza umana; e tuttavia anche l’autunno rappresenta un tempo in cui, all’improvviso, contro ogni attesa, si apre la possibilità che qualcosa accada. Nell’autunno che segue al primo anno di ricerche, il dottore rintraccia le due donne del destino: “veniamo a un momento importante del racconto, di nuovo in autunno” (p. 127). A questo punto del racconto si colloca il “vuoto di memoria” del dottore.
La prima fase della ricerca del dottore si interrompe “al principio dell’inverno” (p. 124). L’inverno è il tempo della rinuncia, dapprima momentanea (la ricerca riprende con l’inizio della primavera), poi quella finale, che suggella il racconto e riporta il dottore in ospedale. La storia, infatti, ha termine d’inverno, quando l’amico soccorre il dottore ormai ridotto nella condizione di un barbone febbricitante. L’inverno è la stagione del ripiegamento interiore, della sconfitta, d’una sconfitta che si risolve nella conoscenza di una verità coincidente con l’attesa della tempesta e della morte imminente, che stringe in un unico destino di morte tutti i viventi.
La ricerca, come si è detto, riprende “al ritorno della primavera” (p. 125) e dura fino alla “piena primavera” (p. 125). La primavera è il tempo delle decisioni importanti: il dottore inizia a scrivere la sua storia in primavera (“in primavera il nostro dottore si era messo a scrivere il racconto di quello che gli era successo nell’ultimo anno” p. 129), va via da casa alla fine della primavera (p. 138, ma lo si desume dall’epanalessi di p. 142). Tuttavia, invano nel racconto si ricercherebbero i colori della primavera, poiché il grigio rimane la tinta dominante del paesaggio: “Era piena primavera, ma vagando lungo il litorale il nostro dottore vedeva tutto grigio intorno a sé.” (p. 125).
Il continuo riferimento alle stagioni costituisce non solo l’intelaiatura cronologica del racconto, ma accompagna lo stato d’animo del dottore. Solo la parte centrale del racconto, occupata dal delirio del protagonista, sfugge inevitabilmente a queste determinazioni temporali.
I luoghi della desolazione
I luoghi della vacanza hanno perduto la loro funzionalità. Gli oggetti visibili nel paesaggio, alla fine dell’estate, non servono più a nulla e a nessuno e comunicano solo un senso di tristezza e di abbandono, che induce il protagonista “a cambiare direzione”:
Sul litorale già spopolato in quella stagione, vagava senza sapere a chi rivolgersi. Bar semivuoti, blocchi di abitazioni che sembravano in abbandono, insegne commerciali piantate lì per nessuno, e negozietti che esponevano materassini pneumatici e salvagenti a forma di cigno, con venditori dall’aria annoiata per mancanza di clienti. Tutta questa malinconia del mondo l’ha persuaso a cambiare direzione (p. 123).
Occorre abbandonare il luogo della convenzionalità, il non-luogo delle vacanze, il litorale occupato dai turisti estivi, e addentrarsi nella campagna, alla ricerca di luoghi dove l’incontro con la fantomatica Milena – così si chiamerebbe la donna del destino – diventi improvvisamente possibile. Ma anche la campagna offre immagini di uno sfruttamento indiscriminato e d’un triste abbandono:
Erano visioni di aie, di casolari abbandonati, di cani che abbaiano, di vecchie col bastone in antri oscuri come quelli della Sibilla. Adesso faceva molti sogni di notte… (p. 123).
I luoghi fisici si sovrappongono a quelli onirici in visioni che anticipano quanto avverrà nel seguito della storia (i rapporti sessuali con la madre della gigantessa, a p. 138):
Si allontanava con passo barcollante, gli venivano in mente visioni di vita in quei posti. Ad esempio l’idea che lì intorno ci fossero antri oscuri abitati da streghe, come quelli della Sibilla. Oppure si vedeva nelle grandi cucine di quei casoni, là che toccava una di quelle donne vestite di nero….. (p. 124).
Né il paesaggio cambia quando, in primavera, ripresa la ricerca, il dottore vaga lungo il litorale:
Era piena primavera, ma vagando lungo il litorale il nostro dottore vedeva tutto grigio intorno a sé, tra sfilate di villette per le vacanze, alberghi per le vacanze, negozi per le vacanze, attrezzature balneari e luoghi di ritrovo popolati soltanto d’estate. Sembrava un pianeta disabitato, con mute insegne commerciali che ti guardano da ogni scorcio, inutili lampioni che si accendono al tramonto. Viali squadrati da facciate spigolose e poveri alberi che soffocano in mezzo a un deserto d’asfalto. (p. 125)
Insomma, i paesaggi di Celati, anche in primavera, hanno la tonalità del grigio, esprimono abbandono e malinconia, e l’idea di una natura sopraffatta dall’uomo, sfruttata e violentata, usata e abbandonata da personaggi come il “primario vanesio che voleva comprarsi un paese in cima a un colle. Sì, un paese tutto per sé, preso nel delirio degli arricchiti che circolava tra i medici del suo reparto” (p. 125).
Non è diverso l’ambiente in cui si colloca la chiromante Egle, che il dottore va a trovare “in una stanza polverosa piena di fiori secchi, entrando tra i ruderi d’una palazzina circondata da erbe infestanti, nel quartiere vecchio della sua città” (p. 126). Identico squallore circonda e pervade i luoghi dove abitano le due donne infine trovate (ma sono proprio loro?) dal dottore:
Nelle campagne vuote, a qualche chilometro dal litorale, c’era una zona dove da tempo la chiromante Egle aveva indirizzato il nostro dottore per mezzo del pendolino roteante sulla mappa. Prima dell’ascesa che porta verso le colline e le montagne, lungo una strada di campagna, si vede uno spiazzo con l’asfalto a pezzi sottosopra, contornato da una barriera di filo spinato. Oltre la barriera e in fondo allo spiazzo si vedono delle rovine di cemento. E’ una vecchia fabbrica in cemento, abbandonata da molto tempo. Sulla cima dei muri spuntano i supporti di ferro arrugginiti, come bitorzoli nei frantumi di calcestruzzo. Vecchia rovina senza nome, esposta ai venti e alle piogge. Alte erbe infestanti crescono nelle buche dell’asfalto e sopra i blocchi di cemento. (p.127).
Del resto, non potrebbe essere diversamente: la gigantessa malata trova la sua giusta collocazione in un paesaggio di rovine, dove l’uomo ha lasciato segni evidenti della sua incuria. Il dottore penetra nella stanza della gigantessa:
Nella camera c’era tanfo di chiuso, di sudore, di carne, di lenzuola sporche, di fiori vecchi, ma non gli dava fastidio. Anzi, dice che quel tanfo gli dava l’unica sensazione di intimità con la gigantessa che riuscisse a provare. (p. 133).
Questo luogo, pur conservando lo stesso squallore dei luoghi descritti in precedenza, ha una particolare importanza nella narrazione: è l’antro della Sibilla, il luogo a lungo cercato e, chissà, forse finalmente trovato, dove avviene la scena decisiva della novella.
Un luogo abbandonato e in rovina ospiterà il dottore che ha abbandonato la sua famiglia:
… le rovine della fabbrica, dove al primo piano c’è uno stanzone di cemento pieno di macerie, con una brandina in un angolo. Qualcuno doveva aver dormito o abitato lì, perché si vedevano le ceneri d’un bivacco, della legna bruciata, le finestre tappate da fogli di plastica. (p. 138)
E’ il luogo della segregazione, “un bunker” (p. 142), in cui “il dottore ha capito di essere schiavo” (p. 138), dove si consuma per due volte il rapporto sessuale con la madre.
Un paesaggio sconvolto e depauperato dalla mano dissennata dell’uomo accompagna la ricerca ossessiva del dottore; un paesaggio caratterizzato da un’assenza più che da una presenza, privo della sua funzionalità originaria, e per questo divenuto insidioso, inquietante, fonte di ossessioni, di paure, di allucinazioni; un paesaggio impregnato di un senso profondo di nostalgia, dove tutto sembra perduto e irrecuperabile. Come scrive Celati,
In quella campagna non ci sono consolazioni, non c’è niente da aspettarsi (p. 140).
Alla fine, giunge l’amico, che accompagnerà in ospedale il medico febbricitante attraversando con lui in auto un paesaggio pieno di incanti e di deliri, la pianura del grande fiume:
Al mattino, in macchina, l’amico lo riporta a casa, avvolto in una coperta, pallido come un morto, con brividi di febbre così forti che lo scuotono tutto. Piove a grosse gocce, il panorama è tutto grigio. In quelle campagne quando piove molto i terreni golenali si allagano subito, e allora intorno si vede gente pescare con l’ombrello sui canali che si intersecano tra i campi. Si vedono biciclette e rare macchine che spariscono nella nebbia, e case coloniche che spuntano da una grigia foschia. Tutto quel buio e quel grigio della foschia sui canali sembra un incanto, dove la gente vive protetta dai clamori del mondo. Ma può anche produrre deliri malinconici…. (pp. 141-142).
Questo è il paesaggio che si apre lungo il percorso dell’automobile che riporta indietro il dottore; e poi ancora il litorale plumbeo contro cui batte la “furia delle onde”; ed il molo, e gli uomini “schierati in fila”, “calmi, immobili, indistinti” (p. 142), come soldatini di piombo, sovrastati dalle onde, che una tempesta presto spazzerà via.
I personaggi
Il dottore, innanzitutto, ovvero il protagonista, è caratterizzato inizialmente come un inguaribile altruista: “Lui è un uomo che ha sempre voluto aiutare gli altri, e questo è il suo difetto, dice.” (p. 122). Il dottore vive sul crinale di due poli semantici: da una parte, un polo negativo che riassume l’insignificanza della vita fin lì condotta, dall’altra, un polo positivo, lasciato piuttosto nel vago, che attiene alla ricerca del protagonista. Al primo rinviano le battute polemiche contro l’amico “che pensava solo alla barca a vela” (p. 122) o contro la moglie perennemente scontenta “che s’ingelosiva molto facilmente” (p. 122) o contro il primario “che voleva comprarsi un paese in cima a un colle” (p. 125) o contro i figli “poco simpatici che andavano male a scuola” (p. 125) e “inebetiti davanti al televisore” (p. 129); rientrano, inoltre, in questa polarità negativa le voci provenienti dall’ospedale e annunciate dal trillo del telefono, le voci dei medici superficiali (p. 133) che pensano solo a far soldi, eccetera. Al polo positivo dei significati rinviano le voci provenienti da terra, prive di ulteriori connotazioni, che irretiscono il dottore spingendolo alla sua disperata ricerca, indirizzata verso l’ignoto (o verso il nulla):
“Voglio voci da terra, voci da terra! Dio mio, per favore, ti prego!”. E dopo si sentiva molto insensato, cioè così completamente insensato che gli sembrava anche inutile restare al mondo. (p. 126)
Del dottore si dà una sommaria descrizione fisica: egli è un “uomo basso, delicato, grassoccio, con anche un principio d’ulcera” (p. 124); e, qualche pagina dopo: “Era un uomo basso, grassoccio, con lo sguardo spaventato, e senz’altro posseduto da qualcosa” (p. 126). La sua figura evolverà verso il peggio, tanto che alla fine della storia il dottore sembra addirittura “un vecchio barbone macilento” (p. 140), molto simile a Tugnin nella novella Non c’è più paradiso. La conclusione della sua inchiesta è amara. All’amico che lo soccorre dirà:
“Credevamo d’essere al di sopra di tutto, ma siamo come gli altri, come le bestie, come gli uccelli, come le vacche sopra una mangiatoia” (p. 140).
E ancora:
“Ma per capire tutto questo ci vuole molto tempo, dice il dottore, il tempo di lasciarsi andare e perdersi del tutto, e il tempo di risalire la china in cerca di altro. Sì, e bisogna saper tirare avanti senza nessuna meta, senza nessun desiderio che ti porti dietro a sempre nuove chimere. E’ questo il senso del destino, secondo lui.” (p. 141)
Ma qui stiamo anticipando gli eventi e la conclusione dell’inchiesta, tutte cose che emergeranno più chiaramente dall’analisi dell’azione narrativa e degli altri personaggi.
“La chiromante Egle e la chiaroveggente, o piuttosto cartomante, di nome Marilù” sono le due aiutanti del dottore nella ricerca delle donne del destino. Egle gli suggerisce di cambiare vita, “come se tutto fosse già scritto nell’ordine delle cose” (p. 126) e lo indirizza con il suo pendolino magico verso i luoghi dove cercare “l’ignota Milena”, salvo poi stancarsi del dottore quando la sua ossessione diventa insopportabile (ella è “stanca di dovergli ripetere sempre le stesse cose” p. 134).
Che Egle voglia raggirare il dottore, essendo d’accordo con le due donne, è informazione che dobbiamo al punto di vista di Marilù, l’altra aiutante del dottore, la quale dapprima, come Egle, gli spiega che le voci da cui è posseduto sono le voci del suo destino (gli fa “sempre delle profezie favorevoli” p. 127), ma poi cambia idea: “Per giunta la cartomante Marilù aveva cambiato la sua interpretazione dei fatti, e secondo lei le carte dicevano che non era quella la donna giusta del destino” (p. 131). Egle lo scarica, Marilù lo mette in guardia dai raggiri di Egle, ma presto diventa anch’ella inattendibile (“Del resto neanche lei somigliava per niente a una Sibilla…” (p. 134)). Intanto, però, Egle e Marilù cooperano alla ricerca del dottore su due piani del racconto distinti, il piano delle apparenze e quello di una realtà più profonda, oggetto dell’inchiesta del dottore. Entro questo duplice piano del racconto, esse sono soggette ad una radicale e speculare trasformazione. Si tratta infatti di due false aiutanti, in quanto entrambe, in maniera differente, ingannano il dottore: Egle, indirizzandolo verso le donne truffatrici, l’altra, Marilù, cercando di impedire il compiersi della sua inchiesta; e tuttavia esse si rivelano anche delle vere aiutanti poiché l’una, Egle, l’ingannatrice, aiuta davvero il dottore nel rinvenimento delle donne da cui apprenderà ciò che cerca, mentre Marilù, la rivelatrice del piano ingannevole di Egle, continua a rivendicare un orizzonte di senso che non va oltre il piano delle apparenze, nel quale Egle e le due donne sono e rimangono delle truffatrici.
Nella trasformazione di questi personaggi si possono rinvenire le metamorfosi dell’impensato, da cui nasce la meraviglia, che Celati ha rinvenuto della novella tradizionale (Boccaccio, Bandello, Basile, ecc.). Si consideri bene quanto Celati dice a questo proposito. Non si tratta di stupire gratuitamente il lettore con fatti insoliti, bensì di scoprire all’interno del solito l’insolito, del reale il surreale, all’interno dell’ovvio l’”impensato”:
La novella in sé non mira a sorprendere il lettore con i fatti narrati, ma con le metamorfosi dell’impensato.[2]
Celati cita a questo proposito la novella di Abraham giudeo di Boccaccio, ma questa definizione, “metamorfosi dell’impensato”, si addice assai bene alla novella Notizie ai naviganti. Chi l’avrebbe mai detto, difatti, che una truffatrice, Egle, potesse cambiarsi in un aiutante prezioso, e che Marilù, che non inganna il dottore, in un serio ostacolo alla sua inchiesta?
(continua)
[1] Elogio della novella, Conversazione con Silvana Tamiozzo Godmann, Fondazione Cini, Isola di San Giorgio Maggiore, Venezia, 15 luglio 1999, p. 9.
[2] Elogio della novella, cit., p. 5. A pagina 3 si legga questa definizione della meraviglia:”La sorpresa è come un punto d’eccesso paradossale, un colmo rispetto a tutte le attese, ed ecco la meraviglia”.