La flat tax accentua le diseguaglianze

Il progetto di introduzione della flat tax, fatto proprio da questo Governo, si muove ulteriormente in questa direzione, con l’applicazione di un’aliquota unica, dunque attenuando la progressività. La tassa piatta riduce il prelievo in modo molto significativo a famiglie molto ricche, determinando un esito per il quale il beneficio cresce al crescere del reddito imponibile.

Si stima, in particolare, che i circa 6 milioni di individui che dichiarano un reddito compreso fra 29 e 50mila euro avrebbero, in media, un beneficio di 2500 euro l’anno, mentre i più ricchi – i circa 2 milioni di contribuenti con reddito superiore a 50mila euro – otterrebbero un risparmio, in termini di minori tasse, di 13.000 euro annui. A beneficiare della riforma fiscale promessa dal Governo Meloni è, dunque, meno del 20% della popolazione, con reddito elevato. È stato calcolato che la flat tax trasferirebbe circa 50 miliardi di euro dalle tasche dei più poveri alle tasche dei più ricchi.

Occorre anche considerare che la gran parte delle famiglie italiane molto ricche ha la propria residenza nelle regioni del Nord e, dunque, la tassa piatta redistribuisce reddito anche a danno del Mezzogiorno. Il reddito pro-capite annuo nel Sud del Paese è, infatti, pari a 16,500 euro, a fronte dei 30.000 e oltre delle famiglie del Nord. Nel programma economico di Forza Italia, per le elezioni del settembre 2022, era scritto, infatti, che le minori tasse non vanno a beneficio di tutti, ma solo a beneficio solo di “chi crea ricchezza, chi crea lavoro, chi investe”, escludendo da queste categorie il lavoro dipendente e includendo, per contro, le imprese e i liberi professionisti.

La motivazione che viene addotta per giustificare la riduzione della progressività delle imposte consiste nel presunto effetto incentivante del lavoro che queste misure produrrebbero. Si tratta della cosiddetta curva di Laffer, ovvero della relazione fra aliquota d’imposta e gettito fiscale proposta dall’economista statunitense Arthur Laffer. La riduzione dell’aliquota di imposta – viene congetturato – incentiva il lavoro. Laffer partì dall’ovvia constatazione che gli individui non lavorano se il loro reddito da lavoro è tassato al 100% e ne derivò l’implicazione per la quale le ore lavorate aumentano al ridursi della tassazione. La curva di Laffer ha un andamento a campana: quando l’aliquota si riduce, aumentano le ore lavorate, aumenta la produzione, aumentano le entrate dello Stato, fino al raggiungimento del massimo gettito. La teoria economica e l’esperienza storica mostrano che questa teoria è facilmente smentibile, per una duplice ragione. Innanzitutto, l’effetto immaginato da Laffer è operativo solo se applicato a un’economia nella quale è molto significativa la presenza del lavoro autonomo (per il quale è possibile scegliere le ore lavoro). In secondo luogo, la sua attuazione – negli Stati Uniti di inizio anni Ottanta – determinò non già un aumento del gettito fiscale, come nelle attese, ma un aumento del debito pubblico.

Occorre infine notare come lo spostamento progressivo dell’onere fiscale ai danni dei lavoratori dipendenti coincide storicamente con una significativa riduzione del tasso di crescita: non si tratta, dunque, di affrontare la questione solo in termini morali, ma soprattutto in termini di efficienza.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 8 gennaio 2024]

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