di Guglielmo Forges Davanzati
L’impoverimento dei lavoratori italiani, in una dinamica che riguarda quasi tutte le economie dei Paesi OCSE negli ultimi decenni, non attiene solo all’ormai noto dato della riduzione dei salari reali (-2.9% dal 1990), ma anche alla compressione dei salari indiretti (i servizi di Welfare) e differiti (le pensioni). Riveste un ruolo fondamentale – in questa traiettoria – la riduzione del grado di progressività delle imposte, nonché la minore fornitura pubblica di beni e servizi.
Le economie moderne si sono strutturate intorno a un patto fiscale nel quale, come per la nostra Costituzione, siano i ricchi a contribuire maggiormente al finanziamento della spesa pubblica. Il maggiore onere a carico dei più ricchi svolge il fondamentale compito di ridurre le diseguaglianze. Negli ultimi decenni, tuttavia, questo patto è sostanzialmente venuto meno, soprattutto in ragione del progressivo spostamento dell’onere fiscale dai redditi più alti ai redditi più bassi. In sostanza, i lavoratori dipendenti pagano più tasse, ricevono meno servizi rispetto ai decenni scorsi e contribuiscono, in termini relativi, maggiormente al finanziamento della spesa pubblica più di quanto facciano i percettori di redditi elevati. Si pensi, stando a casi recenti, al definanziamento della sanità pubblica in Italia voluto dal Governo Meloni, con uno stanziamento che non copre l’inflazione e che riduce il rapporto fra questa spesa e il Pil. Lo Stato italiano ha dunque progressivamente smesso di svolgere la fondamentale funzione di ridurre la distanza fra redistribuzione primaria (quella operata dal mercato, prima delle tasse) e secondaria (quella che si ha appunto a seguito dell’imposizione fiscale), in linea con quanto sta accadendo in molti Paesi dell’area OCSE. L’ultimo libro di Thomas Piketty (Capitale e ideologia, 2020) fornisce un’analisi dettagliata e pressoché completa di questi aspetti sul piano storico in un orizzonte di lungo periodo.