Vittorio Bodini

La luce, appunto: la poesia di Bodini è abitata da una luce che rivela e protegge le cose, ma che mostra di esse, allo stesso tempo, l’appartenenza a un mondo esposto alla consunzione, al disfacimento, alla rovina. La luce marina dialoga con la pietra lavorata del barocco, ma in questo dialogo sono le ombre a guidare le percezioni, le ombre che sono come la faccia minacciosa della stessa luce. Certo, molto in questa particolare luminosità del visibile è dovuto alla fortissima relazione di Bodini con i poeti spagnoli che egli andava traducendo: la luce dell’Andalusia si rifrangeva in quella del Salento. O viceversa. Oreste Macrì, suo grande amico e costante interlocutore, oltre che interprete, dirà che Bodini ispanizza il Salento e salentinizza la Spagna. Ma nella Luna dei Borboni assistiamo anche a una mirabile difesa della luce da ogni trasvalutazione teologica e allegorica. C’è, semmai, nella luce solare un abbaglio che ha sullo sfondo la sua negazione, cioè l’oscuro, e nella luce lunare quell’energia perturbante propria di una certa tradizione selenitica: la luna sorgente di spavento o di affanno o di delirio, secondo una linea che dal Leopardi dello “spavento notturno” (la luna che cade e sfrigola sull’erba e manda fumo) giunge al Landolfi di Pietra lunare o del racconto Voltaluna, ma anche, via Pirandello, riappare in Lucio Piccolo (L’esequie della luna) e in Vincenzo Consolo (Lunaria). Ecco un’apertura perentoria in Foglie di tabacco: “La luce è un’altra bestia sulle case / da aggiungere al bestiario/ la cui favola /sa di sputi e minacce, / il geco e la tarantola, /l’aggressiva cicala, / la civetta”.

La luce, la calce: il biancore di una povertà senza protezione. Il memorabile avvio del libro poetico (“Tu non conosci il Sud, le case di calce…”) sventaglia la luce solare sull’anonimia sperduta dei numeri che escono “dalla faccia di un dado”. In quella luce le presenze umane hanno una teatralità stralunata, chimerica, stravagante, ma anche un sogno di leggerezza imprigionato in un incantamento stordito: per questo fra Giuseppe da Copertino, il monaco che volava, può diventare la cifra di una sorta di antropologia poetica del Salento: lo stesso accade negli scritti e nel cinema di Carmelo Bene (anche di questo si alimenta il singolare rapporto tra i due salentini).

Il mio dialogo – fuori tempo – con Bodini ha altre contiguità: tra queste, la convinzione che la traduzione, il suo esercizio, può essere anima della scrittura sia in verso sia in prosa: anche perché la traduzione stessa – mentre ricompone in una lingua l’opera di un’altra lingua – è scrittura, cioè chiede uno stile e una costante disposizione inventiva. Bodini traduttore di grandi classici come Cervantes e Quevedo o dei tanti poeti del Novecento spagnolo è uno scrittore che mette in gioco tutte le risorse immaginative e stilistiche di una lingua. Per questo le sue traduzioni resistono, e ci appartengono, ancora oggi.

Da altri due aspetti di Bodini mi sono sempre sentito interpellato e coinvolto. Il primo è il modo, non allineato con la storiografia ufficiale, che egli ha tenuto nel leggere il barocco: una civiltà che ha molte rifrangenze sul contemporaneo, una immaginosa ricerca figurativa aperta al dialogo tra i linguaggi e all’interrogazione dell’oltrelimite, dell’estremo, dell’ulteriore (in questo torna il confronto con Carmelo Bene, in particolare con il Bene autore di film come Nostra Signora dei Turchi o Don Giovanni).  Il secondo aspetto è un abito del lavoro intellettuale che non dimette mai la domanda sul proprio tempo, e si sporge sui suoi mali e sulle sue tragedie con “civile” attitudine critica (molto belle le corrispondenze per “Omnibus” dalle terre dell’Arneo occupate dai contadini sul finire di dicembre del 1950). Vasta è, dunque, la raggiera dell’attività poetica, critica e civile di Bodini. Per questo assai utile è il lavoro di edizioni e cure che intorno alla sua opera, per l’impegno di Lucio Giannone e della casa editrice Besa Muci, da alcuni anni si va facendo (compresi i preziosi carteggi, come quello con Sereni, curato da Simone Giorgino, o quello con Sciascia, curato da Fabio Moliterni, o con Luciano Erba, per le cure di Maria Ginevra Barone)

Dicevo del mio dialogo con Bodini: nonostante la distanza sopravvenuta, per stagioni culturali attraversate e per esperienze di scrittura, la coscienza del Sud, così come si mostra nell’opera del poeta – tra fantasmagorie e interrogazioni, tra incantamenti e denunce – nulla ha perso della sua necessità.

[“La Repubblica – Bari” del 5 gennaio 2024]

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