di Antonio Prete
Non ho conosciuto Vittorio Bodini. Nell’ultimo decennio della sua vita ero a Milano, prima studente, poi giovane insegnante. Ero, tuttavia, un lettore della sua poesia e delle sue traduzioni. La prossimità che sentivo con Bodini era anzitutto una prossimità fondata su una comune esperienza: la lontananza dal Salento, sebbene in epoche diverse, diventava custodia interiore delle immagini che da quella terra provenivano. Immagini ferme in una sorta di evidenza data dalla luce particolare che le teneva vive: le case di calce, i muretti a secco tra gli ulivi, il guizzo delle lucertole sul pietrame, i folletti che nottetempo annodano le code ai cavalli, le foglie di tabacco appese a seccare, le ombre dei balconi sostenuti da satiri corrosi, da sirene e da animali, le bocche viola delle raccoglitrici di ulive, i pomodori secchi attaccati allo spago, le siepi di fichi d’India, i lenzuoli al vento sulle terrazze, le Madonne sotto le campane di vetro posate sui comò, i palmizi tra i palazzi di tufo. Queste, e molte altre figure che abitavano i versi di Bodini appartenevano a quel fondale del mio teatro interiore preservato con cura, contro ogni possibile rimozione. E si trattava di un paesaggio non consegnato all’inerte mito di un Sud immobile nel suo incantesimo, ma animato da un tumulto, spesso doloroso, di voci e di volti. Le immagini di quel paesaggio erano avvolte da una luce che la lontananza fissava in una sorta di nitida astrazione. Era Bodini che in alcuni suoi versi aveva descritto benissimo la tonalità di quella luce: “Tutto è evidenza e quiete, e si vedrebbe / anche un pensiero, un verbo, / con il bigio sgomento d’una talpa / correre tra due pietre”.