Forse inventeremo strumenti micidiali, più di quanto lo siano quelli inventati finora, per farci le guerre.
Forse troveremo modi per costruire ospedali rapidamente dove ospedali non ce ne sono, per portare l’acqua dove l’acqua non c’è, per non far morire i bambini di fame e di malattia. Ma questo non dipenderà dallo sviluppo della tecnologia, dall’intelligenza artificiale. Potremmo anche farlo con quella che abbiamo a disposizione, volendo. Dipenderà dall’intelligenza umana e dalla nostra sensibilità. Dall’affetto che proviamo per coloro che abitano il mondo. Dipenderà dalla nostra saggezza o dalla nostra stupidità.
Per ricostruire quello che accadde a Hiroshima subito dopo lo scoppio dell’atomica, lo scrittore Robert Jungk racconta la storia di un bambino che vedendo il mondo che gli apparteneva distrutto da quella follia, vuole giustiziare il suo libro di lettura perché ha capito che le parole di quel libro, e il mondo che in esso veniva rappresentato, non erano altro che menzogne vergognose. Così, nella vampa di quell’agosto, mentre fa a pezzi il libro, e i brandelli di parole si spargono come coriandoli di un tragico carnevale sulla terra arsa, il ragazzo urla:“ Atona wa bo-ka”. Che significa: gli uomini sono degli imbecilli.
La bomba che doveva cadere su Hiroshima era stata soprannominata Little Boy; al bombardiere che lanciò l’ordigno era stato dato il nome della madre del comandante dell’equipaggio: Enola Gay.
Come sarà il mondo domani o domani l’altro dipenderà dalla nostra saggezza o dalla nostra stupidità.
L’intelligenza artificiale potrà riuscire a compiere imprese straordinarie, essenziali, vitali per esempio nella ricerca in medicina. Oppure, per un altro esempio di qualcosa che non è essenziale, potrà scrivere romanzi e poesie.
In un saggio di cinquantasei anni fa, intitolato “Cibernetica e fantasmi”, Italo Calvino si domandava se una volta che avremo affidato a un computer il compito di scrivere qualcosa, avremo la macchina capace di sostituire il poeta e lo scrittore. Se così come abbiamo già macchine che leggono, macchine che eseguono un’analisi linguistica dei testi letterari, macchine che traducono, macchine che riassumono, avremo macchine capaci di ideare e comporre poesie e romanzi.
Non c’è alcun dubbio che una macchina potrà scrivere romanzi perfetti, come quelle americanate di origine più o meno controllata, usciti da una terapia intensiva di editing, che arrivano nelle librerie a vagonate, scortati da totem ad altezza d’uomo (alto), reclamizzati con ogni mezzo e in ogni luogo. Però non ci sarà mai nessuna macchina che potrà riuscire a scrivere un romanzo come “Horcynus Orca”. Per vent’anni Stefano D’Arrigo scrisse e riscrisse, con dedizione assoluta. Cominciò negli anni Cinquanta; per tutti gli anni Sessanta corresse alcune parti, ne cambiò interamente altre. Un lavorio intenso, ossessivo sul ritmo, intorno ad una sola parola, un solo suono. Ad un sacrificio così, una macchina non è disponibile.
Nella costruzione del mondo a venire, l’intelligenza artificiale avrà una funzione determinante. Allora è indispensabile che si impari a governarla. Senza dubbio si stabiliranno regole, si elaboreranno regolamenti, si individueranno criteri e strumenti per la sua gestione. Però tutto questo non servirà a niente se non si potrà confidare in una educazione sentimentale dell’uomo nei confronti dell’uomo, del suo passato, del suo futuro. Non ci sarà cosa che possa servire a qualcosa senza un pensiero che attribuisca un valore assoluto all’esistenza delle creature.
Probabilmente il modo in cui sarà il mondo, in cui saremo noi, dipenderà da quella educazione, da quel pensiero, dal valore che si darà all’intelligenza, alla coscienza, al sentimento, alla passione, all’esistenza dell’uomo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 7 gennaio 2024]