L’ultima fuga

Le tenebre. Sue fedeli alleate, nelle quali si era sempre mosso con destrezza e audacia per tanti anni.

Gli tornò alla mente il suo primo arresto.

– Scappa, amore mio – disse la sensuale Giovanna, gettandosi uno scialle sulla vestaglia che le lasciava scoperto quasi del tutto il seno sodo e prosperoso.

– Ci penso io a trattenere gli sbirri. Presto. Alla porta del giardino.

– No, Giovanna. Non andrei molto lontano. E poi non serve – le rispose lui stringendola a sé e baciandola voluttuosamente.

Sentì quel suo acre odore di donna lussuriosa che lo faceva impazzire e si eccitò all’istante. Con un sospiro si sciolse dall’abbraccio, si sedette all’elegante scrivania intarsiata in radica di noce e aprì il breviario, fingendo di leggere. Si fece prendere come un agnellino; ma erano altri tempi. La Carboneria era potente e diffusa capillarmente in tutto il Salento in ogni ceto sociale.

– Tornerò presto, vedrai – disse rivolto alla sua convivente.

E così fu. Grazie alle complicità dei cugini carbonari infiltrati persino nell’amministrazione della giustizia, venne assolto per insufficienza di prove dall’accusa di concorso in omicidio. E tornò più arrogante e sfrontato di prima. Riprese le sue trame, si vendicò dei nemici, ne fece eliminare quelli più pericolosi,  aprì vendite carbonare dappertutto.

         Anche quando fu arrestato in chiesa alla fine della messa, ritornò dopo pochi mesi. Tra ali di folla osannante, su un carro tirato dal popolino. Chi non lo adorava, lo temeva.

E quella volta che lo misero in minoranza in una tumultuosa riunione carbonara in cui i suoi nemici giurati tentarono di farlo fuori, non se la cavò alla grande?

– Nicola, liberiamo la porta! – gridò al suo più fedele scagnozzo.

La pistolettata di Nicola fulminò il guardiano di sinistra, lui ferì mortalmente quello di destra. Raggiunti i cavalli, si mise rapidamente in salvo, tornando a spron battuto nel suo paese. Lì, nel suo regno, nessuno osava spingersi.

Con le ricchezze e i beni di famiglia avrebbe potuto condurre una vita agiata, tranquilla, senza scossoni; ma non era nella sua indole. Fin da ragazzo aveva avvertito un morboso fascino per il pericolo per l’avventura per l’intrigo, che con gli anni era andato sempre crescendo fino a diventare la cifra essenziale non solo delle sue azioni, ma della sua stessa esistenza.

Nemmeno le donne, con le quali si accoppiava spudoratamente in aperto dispregio dei sacri voti che aveva preso, gli davano lo stesso piacere che provava quando seminava terrore e morte tra i suoi nemici. E per trovarselo contro bastava davvero poco. Era sufficiente un vago accenno, un gesto sconsiderato, una parola poco accorta.

Quelli erano tempi, pensò con acuto senso di nostalgia. Da quando erano tornati al potere i Borboni le cose erano andate sempre peggio. La Carboneria aveva subito fieri colpi. Molti adepti erano stati condannati all’ergastolo o al confino. Diverse vendite erano state scoperte, smantellate e distrutte. E poi cominciava a sentire il peso degli anni.

Tuttavia ce l’avrebbe fatta anche questa volta, non aveva dubbi. Vantava ancora amicizie importanti e autorevoli conoscenze, che lo avrebbero salvato ancora una volta. Doveva, però, evitare di essere catturato.

Si sarebbe rifugiato presso il carbonaro più insospettabile e potente del Regno. Calmate le acque, sarebbe tornato in paese, temuto e rispettato come sempre.

Ora però bisognava fuggire. Ondate di tenebra calavano sugli aranci del giardino come ali di pipistrelli che ne oscuravano le bianche zagare. Era ora di andare. Afferrò un fucile dalla rastrelliera e se lo mise a tracolla. Pian piano socchiuse il portone che dava sulla via per Soleto, si assicurò che la strada fosse sgombra, saltò a cavallo e si diresse al gran galoppo verso la torre sulla serra. Da lì avrebbe inviato messaggi ai suoi alleati più fedeli con i colombi viaggiatori che teneva sempre pronti.

         La cavalcata gli scaldò il sangue e lo mise di buon umore. Il baio superò gagliardamente la salita che portava alla torre. Le tenebre avvolgevano l’antica costruzione che alla luce della luna si ergeva svettando verso il cielo come una sfida ai Borboni e, forse, anche a Domineddio.

Smontò da cavallo, aprì il portone e trovò a tentoni la fiaccola infissa all’anello nel muro. Stava per accenderla quando nell’atrio della torre brillarono di colpo una mezza dozzina di lanterne. Lo spettacolo che apparve ai suoi occhi gli gelò il sangue nelle vene.

– Don Gaspare, non toccate le armi. Ci sono dieci fucili puntati su di voi. In nome di Sua Maestà vi dichiaro in arresto.

La voce dell’Intendente Cito tradiva il compiacimento per la perfetta riuscita dell’operazione di polizia. Un lampo d’ira balenò nei celesti occhi di ghiaccio di Gaspare Vergine. Per un attimo fu tentato di reagire; poi una rapida occhiata al soverchiante numero di sbirri con i fucili spianati lo convinse a desistere.

Un comitato di accoglienza con i fiocchi! Era chiaro che qualcuno lo aveva tradito. Ormai erano sempre più numerosi i carbonari che se la cantavano. L’Intendente, nelle segrete delle carceri, aveva degli argomenti molto convincenti cui era difficile resistere. Il pensiero della violazione dei giuramenti da parte dei cugini carbonari gli diede una piccola fitta al cuore; ma fu solo un momento: ritrovò subito la consueta spavalderia.

– A vostra completa disposizione, Intendente Cito. Sono sicuro che anche questa volta siete in errore e che l’equivoco sarà presto chiarito.

Non poteva sapere che era l’inizio della fine.

Condannato al confino, non fece mai più ritorno a Corigliano. Morì all’estero, dimenticato da tutti.

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