L’ultima fuga

di Franco Melissano

I rintocchi di campana in rapida successione lo costrinsero ad interrompere la lettera che aveva iniziato a scrivere. Posò la penna, si ficcò il foglio in tasca e si diresse precipitosamente verso la cripta. Non c’era un minuto da perdere. Il segnale di Paolo, fedele sacrestano affiliato da anni alla Carboneria, era inequivocabile: sbirri in arrivo.

Varcò il cancelletto in ferro battuto che dava accesso alle scale, scese e si diresse immediatamente verso la statua lignea di Santa Lucia. Spinse verso il basso la mano che reggeva il piattino in cui brillavano gli occhi della santa: il rumore dello scatto precedette di un secondo l’apertura del pannello di quercia perfettamente occultato nel muro. Si infilò nel cunicolo, richiuse con cura il pannello, afferrò un grosso cero poggiato su una mensola alla sua destra e si incamminò velocemente nel passaggio segreto.

Ricordò quando, giovane curato, aveva scoperto quella via di fuga che dal castello portava fuori dalle antiche mura del paese. Ne aveva subito intuito l’importanza e, per evitare che altri potessero venirne a conoscenza, aveva murato l’apertura che dal castello giungeva alla cripta. Dopo alcuni minuti di marcia sbucò in un grande aranceto, recintato da alti muri in pietra leccese che impedivano completamente ad eventuali curiosi di vedere quel che succedeva al suo interno. Entrò nella stalla e sellò il baio di tre anni che teneva legato alla mangiatoia. Si sbottonò la tonaca quel tanto che bastava per poter impugnare all’occorrenza la pistola che portava sempre con sé. Poi si sedette su una panca accanto alla porta della stalla e attese pazientemente che calassero le tenebre.

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