Moresco sa che queste sono domande a cui non ci si può sottrarre e alle quali il romanzo dovrà rispondere, pena la sua gratuità. Quel che è certo, per ora, è che la serie di incalzanti interrogative che l’editore rivolge a sé stesso prima che ai lettori, segnalano la profonda crisi in cui versa questo personaggio e la funzione narrativa di cui è portatore; una crisi dovuta al fatto che ormai l’editore ha perso la sua “spalla”, lo scrittore, di cui ora però sembra non poter fare a meno. Ecco come Moresco fa parlare l’editore, personaggio a cui pare che confidi molto della sua volontà espressiva, a p. 110: “Perché ho preso la preminenza in tutto questo? Perché ho preso in mano o mi è stato dato in mano distruttivamente tutto questo? Per quale gioco? Perché? Non smetto di domandarmi…”. Una domanda tardiva, verrebbe da dire, dal momento che già da tempo la contraddizione dovuta dapprima alla sovrapposizione delle funzione di scrittore ed editore e poi alla destituzione dello scrittore, avevano aperto dilemmi insolubili e fonte di molteplici cortocircuiti narrativi. Questo editore, caratterizzato ora da una “tristezza infinita” (p. 142), non sa amministrare da solo la propria preminenza. Ora dice di condividere il suo ruolo narrante con la Musa: “…adesso e proprio adesso che hai preso, che abbiamo preso nelle nostre mani il peso di tutto.” (p. 143). Verso la fine del volume, dapprima il softwarista prenderà il suo posto e diventerà titolare in proprio del racconto in prima persona. Rivolgendosi all’editore, così gli dirà: “Mi dispiace. Lei ormai è tagliato fuori. Ora tocca a me.” (p. 350) Poi il softwarista sarà scalzato da Meringa, alias Leonarda, la quale, con un vero e proprio coup de théâtre, rivela che l’editore non è l’editore, ma solo un prestanome che lei ha utilizzato per coprire la sua vera identità: è Meringa/Leonarda la vera titolare della “piccola macchina editoriale” (p. 380). Naturalmente questi contorsionismi cui Moresco sottopone i suoi personaggi non annullano la funzione narrativa di cui sono portatori, ma la confermano in pieno, sebbene appaiano come puri espedienti per depistare il lettore e per accentuare l’idea di caos che si vorrebbe sottendere a tutta la storia e che, invece, – come si è visto – è del tutto assente. Nella narrazione, in definitiva, due fili si dipanano: il primo riguarda la vendita del mondo a Dio; il secondo la gravidanza di una bambina che Interfaccia dovrebbe partorire. Nessuna di queste due storie giunge qui a conclusione, per la quale si attende il volume terzo dell’annunciata trilogia. Non si sa cioè, se la figlia di Interfaccia nascerà e se il mondo sarà venduto a Dio. Ma nel frattempo il gioco immaginifico di Moresco ha avuto modo di sbizzarrirsi ad libitum, in una serie allucinante di apparizioni e di personaggi: lo stupratore di donne gravide, la donna avvolta nella carta stagnola, i messaggeri dalle labbra dipinte, l’investitore, le donne dalle bocche scoppiate, l’uomo con la paresi masturbatoria, la ragazza con braccia e gambe amputate, e chi più ne ha più ne metta. Tutti personaggi che compaiono e scompaiono, mentre il brief continua fino alla fine del secondo volume: “Da dove viene questo finimondo di figure che mi passano per un istante di fronte agli occhi? Dove vanno a finire? Quante altre ne vedrò passare, qui dentro? Venute da dove? Per andare dove?…” (p. 295) s’interroga l’editore, senza essere in grado di dare una risposta. In realtà queste figure derivano parzialmente -come si è detto- dal primo volume dei Canti del caos, un universo già creato, dal quale ora possono germinare nuovi racconti e nuovi personaggi, secondo un processo di partenogenesi che espande ad infinitum la narrazione. La definizione della storia come di una “vorticosa espansione” (p. 156), “una frittata che stiamo cocendo e noi stessi dentro la nostra stessa frittata”, rende bene con le parole di Moresco il senso delle cose, di ciò che avviene “qui dentro”. E tuttavia questa infinità rimane una “cattiva infinità”, perché ciò che manca al racconto è proprio la necessaria apertura sul mondo, quell’apertura che caratterizza le migliori narrazioni. Leggiamo Proust, Gadda, Musil, e sentiamo che i loro universi narrativi sono nati da una lotta immane di questi autori col mondo nel quale sono vissuti, con cui essi rimangono in costante relazione e che riescono a rappresentare in modo completo; leggiamo invece Moresco, e rimaniamo prigionieri di un universo chiuso, entro il quale siamo condotti con ritmo incalzante da uno scrittore che non lotta più col mondo per ricavarne la sua opera né intende raffigurarlo, ma lascia che l’opera si costruisca da sé, preda di uno pseudo-ordine caotico che la caratterizza, frutto in realtà dell’acquiescenza dello scrittore, della sua resa dinnanzi alla problematicità dell’opera, che si preferisce risolvere accettando le soluzioni che lo status quo della letteratura impone. Si è già visto come tutta la finzione dell’opera sottintenda una concezione della letteratura in cui lo scrittore non ha più un ruolo, poiché ne è stato defraudato da un editore attento alle regole del marketing. Ma Moresco fa di più: costruisce un non luogo, per usare la celebre formula di Marc Augé, entro il quale può entrarci tutto e il contrario di tutto, un non luogo simile a grande supermercato (“la merce che stiamo qui trattando” dice il softwarista a p. 348), che l’autore provvede a riempire con canti di ogni tipo, cantati da ogni personaggio che si proponga di cantare. Di tutto questo è una spia linguistica lo stilema “qui dentro”, ripetuto quasi a ogni pagina, ossessivamente, come a voler sottolineare i limiti di questo mondo chiuso e privo di comunicazione con l’esterno, limiti entro i quali Moresco si dibatte e oltre i quali non riesce ad andare. E come accade quando non c’è più un esterno rispetto a un interno, un fuori rispetto a un “qui dentro”, quando non si non riesce a passare da un non luogo in cui si soffre la disappartenenza a un luogo familiare e consueto, ecco che Moresco avverte la necessità di non dar tregua al lettore, di incalzarlo con le sue improvvisazioni canore, fino a stordirlo, di riempire ogni vuoto nel quale potrebbe celarsi una via di fuga da questo universo tombale. E giustamente Raul Montanari scrive (Il problema Moresco, in “Nazione Indiana” del 12.10.03, h. 11.04): “…Moresco: evita l’astuzia narrativa di intercalare il pieno e il vuoto. Fa tutto pieno. Riempie tutto. Asfissia senza darti nemmeno lo sfogo di una scansione ritmica percepibile…”. Così Montanari spiega l’effetto che ha su di lui Moresco (“Mi stanca da maledetti”), il che non gli impedisce poi di dare di Moresco un giudizio positivo. Ma questo effetto che Moresco esercita sul lettore non è frutto del caso, bensì dell’ordine preciso imposto dall’autore ad una narrazione autoreferenziale, ovvero priva, come si è detto, di aperture sul mondo. Tutto è “qui dentro” e “qui dentro” tutto è destinato a conflagrare e ad esaurirsi, secondo una strategia che somiglia molto più a quella di un programmatore di videogame che a quella di uno scrittore. Ma programmare non è narrare. In questo equivoco rimane impigliato il racconto di Moresco, un equivoco che alimenta il racconto, ma lo rende statico e privo di sbocchi impensati, sempre promessi, ma sempre rimandati. Il racconto così ha la forza di espandersi, ma mai di risolversi in forme letterarie compiute, come una gigantesca bolla di vapore acqueo destinata prima o poi a scoppiare e a non lasciare più traccia di sé.
Detto questo, ora dobbiamo chiederci ancora una volta quale concezione della letteratura rimanga nascosta dietro questo mondo autoreferenziale e asfittico, in cui nulla sembra verificarsi davvero, ma solo per intervento di un prevedibile, per quanto abile programmatore. E la risposta è proprio nell’analisi fin qui condotta, nella riduzione dell’universo letterario ad una finzione che si dipana da “qui dentro” e mai nel rapporto col “fuori”, con l’”altro”, con l’”esterno”. “ ‘E’ tutto dentro, qui dentro! Non c’è niente che non sia dentro. Che campagna sarebbe se non riuscisse a portare a moltiplicazione ogni cosa, qui dentro?…’ ”(p. 225). Così si esprime l’editore, rivelando non solo quanto è già chiaro dal resto della narrazione, ovvero la chiusura dell’universo moreschiano, ma anche come questo universo si sviluppi pur rimanendo tutto ripiegato nella sua chiusura rispetto all’esterno.
Ed invece tutto ciò che non appartiene al “qui dentro” potrebbe essere l’elemento davvero dirompente, utile a mettere in crisi questa chiusa finzione narrativa e a suggerire una soluzione al racconto, che non può giungere, essendo il racconto un continuo “deragliamento” (p. 220). Il “qui dentro” ha il sopravvento e tutto ciò che vi penetra non può che rimanere schiacciato dall’atmosfera tombale che vi regna.
Per questi motivi, dire che Moresco è “il massimo scrittore europeo”, come fa Giuseppe Genna in “I Miserabili” di martedì 7 ottobre 2003, significa non solo assumersi una grande responsabilità coi lettori, ma anche spacciare un’idea di letteratura che rifiuta ogni apertura sul mondo, e si costruisce, invece, entro gli angusti confini di un universo artefatto, dove tutto ciò che è compreso viene sistematicamente sottoposto ad una disciplina caotica, in cui il caos nasconde in realtà l’ordine di un discorso che rifiuta tutto ciò che gli è estraneo, esterno, movendo il racconto come si muove un cane che si morde la coda. L’”altro”, in quanto non è “qui dentro”, è ignorato, misconosciuto, rifiutato. Solo se è “qui dentro”, l’”altro” acquista dignità, ma una dignità che lo omologa al resto dei soggetti della narrazione, sotto il segno del caos ordinato di cui si è detto. Cantare il caos alla fine non vuol dire altro che celebrare un ordine preciso entro il quale tutto ciò che può essere narrato deve essere intercettato e riassunto.
Essere contro Moresco, allora, significa scegliere un diverso rapporto con la letteratura, in cui la narrazione sia apertura sul mondo, espressione del rapporto tra lo scrittore e il mondo, rappresentazione del mondo, attesa dell’”altro”, che è l’unico nutrimento dell’opera avvenire. Essere contro Moresco significa immaginare un’opera che non si nutra di se stessa, espandendosi per virtù propria in un “deragliamento” che ha tutto il sapore del delirio di onnipotenza (il che equivale a dire di impotenza), e sia invece il frutto di un instancabile rielaborazione letteraria, da maturare giorno dopo giorno, nella molteplicità delle relazioni umane che costellano l’esperienza dello scrittore, e non in un artefatto universo chiuso dove solo un editore mercante, o chi per lui, ha il diritto alla parola.