di Gianluca Virgilio
La prima domanda che ci si rivolge quando si prende a leggere la seconda parte dei Canti del caos (editi questa volta da Rizzoli 2003) mira a conoscere quale sia la tenuta delle strutture narrative e dei personaggi che ne costituiscono le colonne portanti, rispetto al volume che lo ha preceduto. Perché è chiaro che questo “romanzo” (come da copertina) non ha una propria autonomia, ma richiede la lettura propedeutica dell’omonimo volume edito da Feltrinelli nel 2001. Al di là dei numerosi personaggi, alcuni di vecchia conoscenza, altri nuovi di zecca, importa sapere chi ne diriga l’entrata e l’uscita di scena e chi manovri le fila del discorso. Lo scrittore, il Matto, si sa, aveva perso ogni ragione di parlare in prima persona, esautorato, sul finire del primo volume, dall’editore, che rivendicava a sé la responsabilità del racconto. Si è già considerato quale concezione della letteratura questa destituzione nasconda e al tempo stesso riveli.
La seconda parte riprende la finzione narrativa del primo volume, nella quale lo scrittore, ovvero il Matto, è uscito di scena e se ne sta ad amoreggiare con la sua Meringa. L’editore si premura di dircelo a p. 9: “… il Matto? Che fine vuole che abbia fatto! Sarà con la sua Meringa…”. Egli è completamente estromesso dal racconto, e, insieme alla compagna, è “come se non volessero avere più niente a che fare con tutto questo” (p. 73). L’editore era e resta il vero titolare di questa “opera in formazione totale” (p. 57), nella quale nulla finisce che non incominci, ad infinitum. L’opera, invero, si costruisce da sé e non richiede più le competenze di uno scrittore; gli basta un editore che, riunito in un brief con la sua scorta, costituita dall’account, dal copy writer e dall’art, dalla donna dell’acne e da quella “non c’è assorbente che tenga”, cui si aggiungerà poi un altro account, il softwarista e, alla fine, Dio in persona, assisterà al formarsi dell’opera, la sua opera: “… ho preso nelle mie mani tutta la matassa di questo azzardo” (p. 77), dice l’editore, un po’ rivendicando la paternità dell’opera, ma anche con qualche inquietudine derivante dal fatto che egli si è assunto un incarico che non gli compete. Cosa farà l’editore ora, senza la sua “spalla”? Seguiamo per un po’ i suoi pensieri: “Dove è finito a questo punto quell’altro che è stato messo al mio fianco con il nome di Matto? Che entra ed esce di tanto in tanto come se niente fosse, in silenzio. Adesso, per esempio, perché è uscito? Dov’è andato? Certo, lo so, sono io che ho, che avrei voluto questo passaggio, che l’ho determinato. Ma perché l’ho voluto? E perché proprio adesso? Cosa ci fa con un piede dentro e un piede fuori da tutto questo? Com’è sfuggito al suo ruolo? Che ruolo si è ritagliato, si sta ritagliando, ammesso che qui dentro ci si possa ritagliare ancora dei ruoli? In quale diversa dimensione è fuggito, si è installato?” (p. 78).