Esercizi della mente 2. Contro Moresco, Canti del caos (prima parte)

Eppure, egli è uno scrittore diverso da tutti gli altri, “è un caso particolare” (p. 58), da lui ci si aspetta, oltre ogni ironia, “un capolavoro!” (p. 67); sebbene, poi, egli debba fare i conti col grande mediatore, l’editore, che non solo dirige il racconto, ma spesso prende la parola e si fa raccontatore in proprio (“Sono capace anch’io di raccontare questa cosa qui, cosa credi?” p. 242), riducendo al silenzio il povero malcapitato scrittore. Del resto, in questo libro, il diritto di parola ce l’hanno tutti quelli che intervengono, evocati in una battuta di dialogo o nel racconto di chi li ha preceduti nella narrazione: la Musa, l’Interfaccia, il donatore di seme, il sacerdote, l’ispettore Lanza, l’eiaculatore, Pompina, Ditalina, e molti altri personaggi, ognuno con diritto di parola (parlano però tutti allo stesso modo, come se avessero un’unica voce), ognuno autorizzato (molto spesso dall’editore) a sostituire lo scrittore, il quale lascia che siano gli altri a parlare, a raccontare la loro storia, dando così l’impressione che questa materia giustapposta, ma per nulla caotica, gli sfugga di mano; tanto che, alla fine, l’editore ha ragione di dire che è lui, e non lo scrittore, a portare “sempre di più sulle spalle il peso di questa storia e dei suoi destini. Io, il suo editore” (p. 308).

Questa serie piuttosto nutrita di personaggi-narratori dà luogo ad un accumulo di narrazioni che si vorrebbe ricondurre alla scomparsa di Meringa, segretaria dell’editore e innamorata dello scrittore. Ma questo è evidentemente solo un pretesto per dar libero corso ai racconti. Ripeto: a dispetto del titolo, nessun caos nella narrazione, ma solo un giustapporsi di storie entro un ordine compositivo ripetuto senza variazioni.

Che cosa significa, dunque, immaginare una trama narrativa come quella che ho appena descritto, al centro della quale vi è un editore e uno scrittore, entrambi coautori di un libro tutto da scrivere?

Abbiamo altri esempi nella letteratura italiana degli ultimi secoli di una simile compartecipazione espressa nella finzione del racconto. Penso alle Ultime lettere di Jacopo Ortis in cui Lorenzo Alderani edita l’amico Jacopo, morto suicida; penso a La coscienza di Zeno, in cui il dottor S. si vendica del suo paziente, reo di aver abbandonato la cura psicoanalitica, pubblicando il memoriale di Zeno. Ma in entrambi questi casi, le funzioni di editore e di scrittore rimanevano distinte e sarebbe stato inconcepibile che si sovrapponessero fino a rendere irriconoscibile quanto fosse da attribuire all’una e all’altra. Ebbene, Moresco è riuscito a immaginare tutto questo, e così ha orchestrato il suo racconto. Ma che cosa significa, ripeto, immaginare tutto questo?

Sovrapponendo e fondendo le due funzioni e i due ruoli ben distinti, l’editore e il narratore, e immaginando che lo scrittore possa scrivere su dettato dell’editore, Moresco annulla di fatto l’autonomia creativa dello scrittore, e non solo nella finzione del racconto, ma anche per sé in quanto scrittore. L’editore non limita la sua azione alla semplice pubblicazione dell’opera, ma è coinvolto in prima persona nella sua scrittura, anzi, è magna pars nel processo graduale di formazione dell’opera. Lo scrittore qui è nelle mani del suo editore. Tale rapporto scrittore-editore è la rappresentazione reale dello stato presente delle nostre lettere, nelle quali il mediatore per eccellenza, l’editore, ha ormai invaso la sfera di competenza dello scrittore, fino a trasformare e direi anzi a snaturare la letteratura, da tempo ormai dipendente totalmente dal mercato; e questa rappresentazione rimarrebbe una bella metafora, assai significativa dell’attuale sistema letterario, se Moresco non dimostrasse per tutta l’opera di rimanerne schiacciato e annichilito, poiché è certo che dall’opera sua non scaturisce nessuna soluzione operativa, non una proposta letteraria positiva, né un’idea che possa rappresentare un lume per il futuro, ma solo una rappresentazione in negativo della realtà in cui viviamo e nella quale Moresco è immerso fino al collo. Ogni possibile autentica pratica letteraria è esclusa, poiché la letteratura risulta essere un gioco perverso adatto a un lettore non solo “irredento”, ma anche irredimibile. Per questo i Canti del caos presuppongono, sin dal loro inizio, dalla Prefazione, un lettore non libero, schiacciato dalle necessità del mercato (quelle dell’editore) che non gli concederanno alcuna possibilità di redenzione, e lo terranno sottomesso a una logica narrativa fatta di storie susseguentisi a ritmo incalzante, in cui tutto viene enfatizzata attraverso un uso iperbolico del racconto.

“ ‘C’è una cosa grossa in arrivo! Una cosa enorme! Uno sballo!’ disse ancora l’account. ‘Una cosa come non se ne sono mai viste, qui dentro. Ci stiamo preparando a fare un salto mai visto prima. Nessun agenzia pubblicitaria si era mai trovata di fronte una cosa così!’”. (p. 271).

Il lettore di Moresco riceve scariche di adrenalina a bizzeffe per tenere gli occhi aperti, e lo scrittore gliele somministra senza alcuna parsimonia, certo che il lettore rimarrà schiavo del suo gioco: un lettore “irredento”, appunto, come da premessa.

Quale concezione della letteratura emerga, dunque, da questa narrazione, è presto detto. Si tratta di una concezione paradossale della letteratura, nella quale lo scrittore, mentre denuncia i meccanismi perversi del potere, ne rimane schiavo egli stesso e anzi diventa di essi l’olio lubrificante. Moresco è davvero la rappresentazione vivente della contraddizione insita nella letteratura odierna, nella quale ogni denuncia, ogni espressione di libertà, ogni critica, si trasforma in fiore all’occhiello di un’editoria divenuta asfittica, eppure ancora molto vitale grazie all’enorme potere economico di cui dispone.

E la ragione di questa contraddizione sta nel fatto che il dissenso continua a esprimersi attraverso i canali controllati dall’editoria, che annulla le differenze e fa di ogni erba un unico fascio di sterpi secchi.

Ma a guardar bene, non la letteratura esce sconfitta da questo gioco al massacro (dello scrittore e del lettore), bensì la falsa idea di letteratura fondata sulla compromissione delle due figure dello scrittore e dell’editore, oltre la quale Moresco riesce a intravedere ben poco. Così, lo scrittore, che alla fine del racconto ritrova, secondo un copione consolidato, di cui Moresco è ben cosciente, la sua Meringa, vorrebbe incominciare la sua opera (“Adesso posso finalmente iniziare a pensare a questo cazzo di libro”), ma è subito zittito dall’editore, cui è riservata l’ultima parola, oltre che il diritto di parlare in prima persona:

“ ‘Accidenti, sei duro d’orecchi! Ancora non hai capito?’ risi liberando una boccata di fumo contro la sua [dello scrittore] testa. ‘D’ora in poi sarà la mia voce a risuonare direttamente, qui dentro. Mi prendo anche la prima persona, come vedi. Si è mai vista una cosa così? (…) Me lo sono conquistato sul campo! Ti ho buttato fuori! Il tuo tempo è finito! E’ cominciato il mio!’”. (pp. 392-393)

Lo scrittore, dunque, sul finire del libro, vorrebbe iniziare la sua opera. Ma ciò è gli è ormai vietato. La voce del “noto editore” ha vinto, la voce dell’arroganza, della sopraffazione, della violenza. Per questo nei Canti del caos la vera letteratura è la grande assente, mentre invece la falsa letteratura spacciata dell’editore la fa da padrona. Lo scrittore ha deposto le armi, vittima di un editore attento alle leggi del mercato, succube di un destino che nessuna tradizione gli ha mai consegnato, che invece sembra essersi scelto da sé, per ignavia, per pochezza d’animo, o forse per acquiescenza. Tutto questo trova nei Canti del caos la propria autorappresentazione e la propria condanna.

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