di Gianluca Virgilio
I Canti del caos di Antonio Moresco hanno inizio con una Prefazione, scritta – si racconta – da un noto editore che, sin dalle prime righe, stabilisce i termini della finzione narrativa che governerà l’intero libro. Vi è uno scrittore “idiota” dalla balzana idea di scrivere un capolavoro e vi è lui, l’editore, che non ha affatto intenzione di rimanere nel suo ruolo, ma intende fare molto di più: “ ‘Patti chiari!’ gli ho detto. ‘Non pensare che mi accontenti di un ruolo da editore passivo, quando la pappa è pronta. Ci metterò il becco anch’io, ti interromperò, ti darò consigli. ’ “(p. 10). E così sarà, difatti. La finzione del racconto prevede, dunque, che l’editore, soprannominato il Gatto, accompagni e guidi lo scrittore, detto il Matto, nella formazione di un’opera che è tutta da scrivere. Sin dal principio l’editore conduce il gioco, commentando l’opera nel suo farsi, approvando o censurando quanto si viene raccontando. Tra un episodio e l’altro, il lettore “irredento” (cioè schiavo dell’attuale industria editoriale e impossibilitato a liberarsi) può leggere alcune battute di dialogo tra i due protagonisti (“Ci siamo noi e non altri, al centro di questa storia”, dice l’editore (p. 100) ), che fungono da cerniera e favoriscono il susseguirsi ordinato delle storie. In questi dialoghi lo scrittore appare, nel confronto con l’editore, sempre in posizione difensiva; egli si schermisce, si scusa, evita il contrasto, l’antitesi, la dialettica, obietta qualcosa, ma senza eccessi, si esprime con frasi brevi, in cui il suo evidente disappunto non si fa mai ragione motivata del proprio ruolo, espressione chiara di una funzione distinta. Il padrone è lui, l’editore, il Gatto, il “magnaccia” (p. 190). Egli sa cosa vuole il mercato, mentre lo scrittore non sa nulla. La sapienza narrativa non appartiene più allo scrittore, ma all’editore, egli è il deuteragonista che si fa protagonista (“Il mio compito è duro, qui dentro. Devo fare da spalla a chi mi fa da spalla.” (p. 200) dice l’editore), mentre lo scrittore sembra quanto meno afasico ed appare molto impacciato in un “qui dentro” – ovvero lo spazio dell’opera in progress – di cui gli sfuggono le coordinate.