Si pensa il tempo passato in ragione di quello che ci ha dato, della felicità o dell’infelicità che abbiamo provato, dell’amore che abbiamo donato e ci è stato donato, delle illusioni e delle delusioni, dei dolori e dei rimpianti, della bellezza della semplicità di pensieri sguardi gesti parole silenzi, della bruttezza dell’artificiosità di ipocrisie falsità finzioni furbizie malizie, della profondità o della superficialità della nostra memoria.
Probabilmente il passato è la dimensione di tempo che più di ogni altra ci appartiene e alla quale apparteniamo, l’unica sulla quale è possibile riflettere, con la quale ci si ritrova inevitabilmente a confrontarsi.
Il passato è l’unica certezza, in quanto immutabile.
Il presente passa rapidamente, talvolta anche impercettibilmente, nella nostra mente, nei nostri occhi: così rapidamente che spesso non si ha modo di ragionare sulle scelte, sulle occasioni, sugli accadimenti. E’ come un giro di giostra che si conclude sul più bello oppure quando ci si sente stravolti dalla vertigine.
Il futuro è ciò che non si sa. E’ una configurazione del possibile, che però deve necessariamente considerare l’imprevedibile e l’imponderabile, l’enigma e il mistero che comunque tramano l’esistenza di tutti e di ciascuno.
Il futuro non ci appartiene. E’ una dimensione immaginaria, un’ipotesi vaga, un’illusione necessaria, la figurazione dell’ombra del nostro esistere che si proietta nel tempo del non ancora. Eppure si vive elaborando progetti, quindi collocandosi costantemente in quella dimensione immaginaria, cercando di predisporre elementi che possano realizzare le ipotesi che formuliamo quasi come un tentativo di sottrarre il tempo al completo assoggettamento del caso.
Ogni giorno, ogni ora, perfino ogni istante, sono soggetti al caso, all’imprevisto, all’imponderabile, ad una combinazione di elementi e situazioni che non siamo in grado di decifrare, a coincidenze e a congiunture che non sappiamo comprendere perché non possiamo. Con questa indeterminatezza, con questo enigma del tempo si deve, inevitabilmente, fare i conti, anche se si tenta –a volte disperatamente- di governarlo attraverso una classificazione, una suddivisione in millenni, secoli, anni, mesi, giorni, ore, minuti, anche se si inventano sistemi per misurarlo o più esattamente per tenerlo sotto controllo:calendari, agende, orologi: abbiamo orologi dappertutto, in casa, al polso, sul cellulare, al computer, sul cruscotto dell’auto, rappresentazioni più o meno consapevoli del nostro senso di precarietà, di finitezza, di provvisorietà, di insicurezza, caducità.
Poi qualche volta si viene sorpresi dal sospetto che fuori dalle agende, possa esistere un senso del tempo diverso. Allora si pensa che se si arriva un minuto dopo, mezz’ora dopo, dove si deve arrivare, non cambia proprio niente, che la Terra gira ugualmente, che non mutano i destini tuoi né quelli degli altri. A quel punto, per qualche secondo, si comprende che si può anche perdere tempo; anzi: che è assolutamente falsa l’espressione perdere tempo, perché quell’espressione è relativa ad una predeterminazione del proprio tempo, che in quanto tale è artificiosa e in quanto artificiosa è falsa. Nessun tempo è mai perso, per il fatto che il tempo è una dimensione esclusivamente interiore; è innanzitutto un rapporto con se stessi, unico, irripetibile e quindi carico di un senso che talvolta non riusciamo neppure a comprendere pienamente ma che possiamo soltanto assaporare attraverso un riflesso della memoria ed una speranza di futuro di cui il presente generosamente ci fa dono.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 31 dicembre 2023]