Quanto ci costa risparmiare su istruzione e ricerca scientifica

Si è aggiunta l’ossessione – dal 1992 a oggi, compreso l’attuale Governo – per la riduzione del debito pubblico mediante continue generazioni di avanzi primari: riduzione della spesa corrente e aumento della tassazione (i più anziani ricorderanno, a riguardo, il prelievo sui conti correnti del Governo Amato). I risparmi dello Stato sono stati anche ottenuti riducendo le spese per istruzione e ricerca scientifica, seguendo una rincorsa alla riduzione del debito in rapporto al Pil che si è rivelata una fatica di Sisifo: il continuo aumento dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico ha reso inutile la compressione della spesa pubblica, così che quel rapporto è costantemente aumentato in permanente regime di inutile austerità.

La linea della moderazione salariale, combinata con l’austerità, si è rivelata del tutto fallimentare, dando luogo a tassi di crescita notevolmente bassi. L’ultima previsione per il 2024 riguarda una dinamica del Pil ferma al valore molto modesto dello 0.6%. Il definanziamento di istruzione e crescita è controproducente anche per la tenuta dei conti pubblici. Istruzione e ricerca scientifica, infatti, contribuiscono a generare crescita economica e, di conseguenza, ad accrescere la nostra solvibilità in quanto debitori, incidendo positivamente sulla dinamica della produttività del lavoro. Si tratta del caso emblematico di effetti dal lato dell’offerta della spesa pubblica, seguendo una regolarità empirica nota come Legge di Kaldor-Verdoorn.

Nei tempi più recenti, e ciò vale soprattutto ma non solo per il Mezzogiorno, la rinuncia a spendere per istruzione e ricerca è stata anche dovuta al confidare – da parte delle classi dirigenti – nel fatto che lo sviluppo del Paese, o di una sua parte (le città d’arte e il Sud d’estate o a Natale e Pasqua), dipenda dai flussi turistici. Questi ultimi invero sono resi possibili grazie a un ampio esercito di lavoratori giovani – spesso sovra-istruiti rispetto alle mansioni svolte – con salari bassi o in condizioni di lavoro irregolare nelle attività legate al turismo (ristorazione, lidi balneari). 108 società scientifiche provano a ribaltare questa tendenza, con un appello al Ministro Bernini per l’aumento e la stabilizzazione della spesa per ricerca scientifica in rapporto al Pil. https://www.scienzainrete.it/…/appello…/2022-12-15. Si evidenzia l’emigrazione di numerosi ricercatori italiani, soprattutto giovani, che trovano opportunità di lavoro all’estero e che, quindi, contribuiscono allo sviluppo economico di altri Paesi, in virtù delle basse retribuzioni offerte in Italia e della bassa numerosità di reclutamenti. Nella negoziazione in Europa sulla revisione del Patto di Stabilità, il Governo avrebbe fatto bene a recepire la proposta – fatta propria da molti economisti non solo italiani e, di recente, dal premio Nobel Giorgio Parisi – di scorporare le spese per la ricerca dal calcolo del deficit. Averla dimenticata costituisce un’ulteriore occasione mancata per il Paese.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno”, 2 gennaio 2024]

Questa voce è stata pubblicata in Economia, Universitaria e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *