2) Vi è poi un secondo motivo di perplessità, che deriva dal fatto che l’obiettivo dichiarato, nella redazione del nuovo Patto, era la semplificazione delle regole fiscali: ciò che è venuto fuori è un’ulteriore complicazione derivante dall’eccesso di regolamentazione e di quantificazione. Sarà utile, a riguardo, ricordare che già i criteri di Maastricht, secondo la nota definizione di Romano Prodi, erano “stupidi”, essendo poggiati su previsioni inverosimili di crescita economica dell’eurozona. I vincoli quantitativi, infatti, già nel 1992, non poggiavano su alcuna certezza scientifica, così come quelli della versione attuale del Patto. Non viene poi assolutamente presa in considerazione l’ampia e crescente letteratura scientifica che mostra come gli investimenti pubblici siano un fondamentale fattore di crescita. Contrariamente, infatti, alla visione dominante per la quale se uno Stato si indebita trasferisce l’onere fiscale alle generazioni future (tesi che è a fondamento del PSC nella prima e nella seconda versione), viene fatto osservare che gli investimenti pubblici – si pensi alla formazione e alla ricerca o alla transizione ambientale – accrescono lo stock di capitale disponibile per il futuro, dunque il benessere materiale dei nostri discendenti. Sarebbe stato più saggio assoggettare alle regole di riduzione della spesa la sola spesa corrente e non considerare in questo calcolo le spese in conto capitale (è la cosiddetta “regola d’oro” della politica fiscale).
Oltre un anno di negoziazioni in Europa hanno prodotto un esito decisamente deludente: non si è fatto tesoro degli errori del passato, avendo ormai chiaro che l’Europa generata da Maastricht ha avuto bassi tassi di crescita e che i suoi stessi obiettivi di riduzione del debito non sono quasi mai stati rispettati. Dal punto di vista politico, il Governo Meloni ha perso la contrattazione: avrebbe voluto criteri più flessibili, con lo scomputo di alcune tipologie di investimento pubblico (in primis, per la difesa) dal calcolo del deficit. I problemi sono in larga misura spostati negli anni successivi, così come le decisioni impopolari che il PSC impone per i futuri governi, soprattutto quando avrà termine il PNRR (2026) e occorrerà procedere a drastici tagli di spesa. Si è confermata essere un’Europa della diffidenza fra Stati, della sfiducia reciproca, fondata sul rigore tedesco e sulla quantificazione dei limiti di spesa. Imporre vincoli quantitativi – come si è fatto – ha senso solo in vista della convergenza fra Paesi su valori di deficit e debito sufficientemente uniformi da essere la precondizione per l’unione fiscale. Ma questa prospettiva viene allontanata inevitabilmente dalla contestuale decisione di allargamento dell’Unione (Turchia, Macedonia, Albania e altri in corso d’esame) a Paesi con parametri molto divergenti da quelli che la compongono attualmente. Più, infatti, si cercano convergenze fra i Paesi membri, più diventa difficile motivare l’adesione di altri. Paul de Grawe, uno dei massimi studiosi dell’UME, rileva, a proposito, che il problema fondamentale dell’Unione consiste nella sua “variabile profonda”: la sostanziale assenza di un sentimento collettivo di appartenenza alla stessa nazione.
[“La Gazzetta del mezzogiorno”, 30 dicembre 2023]