La partenza da casa può essere chiamata “necessità di sopravvivere” se riferita alle condizioni economiche, oppure “speranza di vita migliore” se riferita alle aspettative future (non sempre realizzate) o ancora “abbandono” se riferita all’allontanamento volontario. Il viaggio può essere definito una “traversata” se si vuole mettere in rilievo il semplice attraversamento di vari paesi, o una “odissea” se si vogliono sottolineare le varie vicissitudini che si possono verificare, o anche “inferno” se si vogliono mettere in mostra i pericoli, compresa la morte, che sono in agguato. Il soggiorno in Libia può essere chiamato “tappa” con vocabolo neutro, oppure “prigione” con riferimento alle condizioni di detenzione in cui spesso i migranti si trovano. All’attraversamento del mare provvedono alcune persone che forniscono i mezzi di trasporto dietro il pagamento di una somma di denaro. Si potrebbero chiamare “barcaioli” se facessimo riferimento al mezzo di trasporto fornito, oppure, come spesso viene fatto, “trafficanti di uomini”. Questa definizione viene messa quasi sullo stesso piano dei “mercanti di schiavi” che trasportavano gli schiavi dall’Africa all’America. Ma non si tiene conto del fatto che gli “schiavisti” rapivano gli schiavi contro la loro volontà e li mettevano in catene (basta vedere qualche stampa dell’epoca) mentre i moderni “trafficanti” esaudiscono una richiesta dei migranti, tant’è vero che questi ‘pagano’ per essere trasportati. Ciò dimostra che i migranti ‘vogliono’ fare quel viaggio. Che poi le condizioni del trasporto non siano quelle di una nave turistica è un’altra questione, che non si configura come reato perché i ‘viaggiatori’ le conoscono in partenza. Il viaggio per mare può essere semplicemente una “traversata” o anche un “viaggio della speranza” visto dalla parte dei migranti o anche un “tentativo di invasione” secondo altri parametri. Se, come si diceva, il viaggio va male, intervengono delle navi che operano dei “salvataggi in mare” ed i marinai relativi sono dei “salvatori” oppure dei “favoreggiatori” del “trafficanti di uomini” e quindi operano non in nome della “umanità” ma in “concorso di illegalità” e quindi passibili di pena. L’arrivo dei migranti nel porto può essere un “approdo”, la fine sperata di una traversata, spesso salutata con segni di giubilo, oppure è una “invasione” alla stregua dello sbarco di soldati nemici oppure è una “violazione dei confini”, da configurare come “reato di immigrazione clandestina”, sicché chi cerca di impedirla, bloccando le navi in mare, fa un’azione meritoria, di cui può sentirsi ‘orgoglioso’. Il soggiorno successivo dei migranti avviene in “centri di accoglienza” che, se il soggiorno è troppo prolungato, possono tradursi in “centri di detenzione”, in attesa che i migranti siano “liberati” o “espulsi” secondo le norme previste dalla legge.
Il lungo processo che abbiamo descritto è un tutt’uno, ed è motivato da “necessità di vita” comunque configurabili: sfuggire a guerre e carestie o semplice desiderio di migliorar le proprie condizioni economiche. Il processo va considerato nel suo complesso perché costituisce una ‘catena di cause’ che danno una giustificazione dei vari momenti che compongono. Spezzarlo in un punto, ad esempio nel momento in cui inizia la traversata in mare, accentuando così il ruolo dei “trafficanti di uomini”, significa dimenticare le sue cause remote e criminalizzare un momento che è soltanto di passaggio dell’intero percorso. Se si vuole affrontare il problema delle migrazioni bisogna farlo nel suo complesso, oltretutto considerando che è un problema mondiale determinato dagli squilibri economici esistenti tra i vari popoli. Descrivere il problema è, come si visto, una questione linguistica che è legata al punto di vista ed all’atteggiamento mentale di chi descrive. Ma essa è il punto di partenza per cercare una soluzione.
Che cos’è questo testo che ho scritto? Una denuncia o una constatazione? Non saprei dirlo. Prendetelo come un saggio di linguistica.