di Pietro Giannini
I fatti della vita e della storia entrano nella nostra conoscenza con le parole che li designano. Prendiamo il caso dell’emigrazione. Il termine “emigrazione”, con il prefisso e-, esprime il fatto di chi “migra lontano da” (dalla sede in cui vive). Per converso il termine “immigrazione”, con il prefisso in- (assimilato in -im) esprime lo stesso fatto dal punto di vista del paese “in cui il migrante” arriva. Sicché “emigrazione” e “immigrazione” (e di conseguenza “emigrante” e “immigrato”) sono le due facce della stessa medaglia, la “migrazione” che è (da Treccani online) lo “spostamento definitivo o temporaneo, di gruppi da un territorio a un altro, da una ad altra sede, determinato da ragioni varie, ma essenzialmente da necessità di vita”.
Partendo da questa definizione possiamo seguire il percorso dei migranti che giungono dall’Africa in Italia. I migranti partono dal loro “territorio” (o “sede”), qualunque esso sia, per “necessità di vita”. In questa fase essi sono “emigranti” (da loro punto di vista). Essi attraversano l’Africa giungendo sulle coste del Mediterraneo, per esempio in Libia o in Tunisia. Qui essi si imbarcano su natanti in ogni caso precari; se tutto va bene giungono sulle coste italiane e vengono fatti sbarcare, se incappano nel mare grosso possono essere salvati da una nave di soccorso ed essere accompagnati a riva oppure possono affondare in mare aperto o naufragare sulle coste italiane.
Ogni momento di questo viaggio può essere definito in modo diverso.