Per fortuna eravamo muniti di due faretti molto potenti e di un canotto che ci permettesse di esplorare l’intera cavità. Questa correva sotto il pavimento della Cattedrale e la superava, sino alla piazzetta dell’Episcopio, proprio a ridosso dell’area dove gli scavi hanno permesso di portare alla luce, con le statue colossali della dea, i resti del santuario di Atena, di cui parla Virgilio nel libro terzo dell’Eneide. Uno stretto corridoio permette di scendere sino a sei metri sotto il livello attuale; già sulle pareti si notava un rivestimento in cocciopesto che sembrava antico, ma l’emozione mi aveva sopraffatto quando i faretti avevano illuminato l’enorme, bellissimo, vano della “cisterna”: una vera cattedrale in negativo, scavata nella pietra, orientata nord-sud, che gradualmente ai miei occhi svelava i suoi segreti.
Le pareti presentavano nella parte superiore l’irregolarità di una formazione naturale di natura carsica, con protuberanze diverse per dimensioni, coperte da un accurato rivestimento in cocciopesto. Come nelle altre cavità lungo la costa (la Zinzulusa valga per tutte), anche sul pianoro di Castro l’azione delle acque dilavanti e, forse, movimenti tettonici di remote epoche geologiche, avevano creato una cavità naturale aperta superiormente, di forma longitudinale, che si era riempita di acqua, costituendo una riserva naturale del prezioso elemento, elemento di attrazione per l’insediamento umano sin dalla Preistoria. La presenza dell’acqua aveva condizionato, nel Medioevo, la costruzione delle due chiese: quella greca del IX secolo, a pianta centrale, aveva l’abside ad ovest della grande fessurazione, proprio per poter accedere all’acqua, mentre la Cattedrale del XII sec. era stata costruita sovrapponendosi, sull’asse est-ovest, alla cavità, con una disposizione ortogonale ad essa. Nella grotta-cisterna la fenditura appare coperta da un allineamento di blocchi in calcarenite, certamente prelevati dalle imponenti fortificazioni messapiche e dagli edifici del santuario di Atena. Ma l’accesso all’acqua era stato sempre preservato, anzi un arco scavalcava il corridoio di ingresso, collegando i due edifici sacri, e, sopra l’arco, era stata dipinta nel Trecento l’immagine dell’Annunziata. Oggi, dopo i restauri, ne restano scarse tracce, come il bordo dell’abito della Vergine e dell’Arcangelo Gabriele, ma i vecchi di Castro ricordano che l’affresco era perfettamente leggibile e che Maria era lì per custodire la riserva d’acqua, una risorsa dal sapore sacro, prima che l’Acquedotto pugliese, ne rendesse insignificante le presenza, portando tutto all’oblio.
Guardando in alto, verso l’apertura superiore della gotta-cisterna, appare chiaro che il rivestimento di intonaco antico ingloba una serie di blocchi lavorati con cura e non di reimpiego, disposti, come ponticelli, a distanze regolari, onde permettere a chi frequentasse l’area di scavalcare la cavità, evitando di cadere all’interno oppure di girarvi ogni volta intorno. Questa sistemazione della cavità, con certezza anteriore alle fasi medievali, va attribuita al periodo di maggiore sviluppo monumentale del pianoro di Castro: quello in cui fiorì, nel IV sec. a.C., il luogo di culto di Atena, un santuario internazionale frequentato dai Messapi che controllavano il sito, ma anche dai tarentini, che avevano stipulato con essi un accordo per il controllo strategico dei passaggi marittimi e delle attività commerciali, e dalle genti dell’opposta sponda di Epiro e della costa illirica, dove erano sorte le colonie greche di Apollonia, Orikos e Epidamnos.
L’apertura superiore della cavità infatti appare contigua al cuore del santuario dove era presente l’altare costruito davanti al tempio della Vergine Atena, portato alla luce dagli scavi recenti. Qui avvenivano i sacrifici cruenti che lo scavo ha documentato, attraverso le migliaia di ossi relativi agli animali uccisi, in parte bruciati, in parte consumati in occasione dei pasti rituali. Questa attività rendeva indispensabile, per ragioni igieniche e rituali, un’ampia disponibilità di acqua, per lavare le strutture dove pecore e buoi venivano sgozzati e per purificare dal sangue gli addetti al rito e gli strumenti utilizzati. Non è dunque un caso che il cuore del santuario sia stato localizzato in prossimità della riserva d’acqua che veniva attinta direttamente, accostandosi alla fenditura aperta nel banco di roccia viva.
«Nullus enim fons non sacer» (non c’è nessuna fonte che non sia sacra), come afferma Servio, nel suo commento all’Eneide di Virgilio, e penso che la sacralità dell’acqua nella grotta di Castro non fosse tale soltanto in età cristiana, ma risalisse sino al periodo antico. Si apre così un capitolo nuovo nella storia di questo magico luogo della nostra Italia, e diviene urgente l’impegno a farlo conoscere ed a valorizzarlo.
[“La Repubblica – Bari” del 27 dicembre 2023]