Centone galatinese II

Potere letterario. Sentite questa dichiarazione di Giovanni Macchia, riportata da Daria Galateria, Macchia. Appunti segreti, “La Repubblica” di giovedì 4 dicembre 2008, p. 44: “Sono contro la politica, non ne ho mai fatti parte, non sono stato iscritti ad alcun partito, perché conosco il valore e lo strazio della solitudine – che cosa significa lavorare e essere solo – non appartenere a gruppi e correnti (…). Sono contro i politici perché i politici sono contro la letteratura. Diceva Flaubert: “I governo sono e saranno sempre i nemici della letteratura, perché sentono in essa una forza”, “il potere non ama un altro potere” e io conosco il potere della letteratura, credo in esso. Fl(aubert): “I governi possono però cambiare – l’estetica ufficiale non cambia mai!”. (…) Non mi sono interessato di politica? Tra Don Giovanni e Don Rodrigo, i Moralisti classici, lo stesso Don Giovanni sono libri di politica…”.

Narcisismo moderno. Marshall Mcluhan, Nella tribù elettronica, “La Repubblica” di mercoledì 21 gennaio 2009, p. 39, ci offre una interpretazione in chiave moderna del mito di Narciso: “Con il telegrafo, l’uomo occidentale ha iniziato ad allungare i suoi nervi fuori dal proprio corpo. Le tecnologie precedenti erano state estensioni  di organi fisici: la ruota è un prolungamento dei piedi; le mura della città sono un’esteriorizzazione collettiva della pelle… La caratteristica di tutte le estensioni sociali del corpo e che esse ritornano a tormentare i loro inventori in una sorta di rimorso di incoscienza. Proprio come Narciso, che si innamorò di un’esteriorizzazione (proiezione, estensione) di se stesso, l’uomo sembra innamorarsi invariabilmente dell’ultimo aggeggio o congegno, che in realtà non è altro che un’estensione del suo stesso corpo.

Quando guidiamo la macchina o guardiamo la televisione, tendiamo a dimenticare che ciò con cui abbiamo a che fare è soltanto una parte di noi stessi messa là fuori. In questo modo, diventiamo servomeccanismi delle nostre stesse creazioni e rispondiamo ad esse nel modo immediato e meccanico che esse richiedono. IL punto centrale del mito di Narciso non è che gli individui tendono ad innamorarsi della propria immagine, ma che si innamorano di proprie estensioni, convinti che non siano loro estensioni. Penso che questa sia un’immagine piuttosto precisa di tutte le nostre tecnologie, e ci invita a riflettere su una questione fondamentale: l’idolatria della tecnologia comporta un intorpidimento psichico”.

La nuda vita. Scrive Aldo Schiavone, Il destino della legge, “La Repubblica” martedì 27 gennaio 2009, p. 36: “… la “nuda vita”, la vita come irriducibile fatto primario – è ormai solo una pura astrazione dell’intelletto – poiché di essa non possiamo fare esperienza reale se non in una forma già tutta attraversata dall’artificialità, dal prodotto, dal costruito… l’umano stesso sta cominciando a disintegrarsi dalla base naturale che lo ha finora accompagnato, per trasformarsi nel risultato programmato di una tecnica…”.

Sul contratto sociale. Scrive Boaventura de Sousa  Santos, Incontro con Sousa Santos, di Giuliano Battiston, “Il Manifesto” di mercoledì 28 gennaio 2009, p.13: “Quando venne elaborata la metafora fondante della società capitalistica occidentale, quella del contratto sociale, molte persone non ne potevano far parte; i lavoratori non ne erano parte, e così le donne, i servi, e via dicendo. In sintesi, ne erano parte solo quelli che avevano delle proprietà e pagavano le tasse. L’idea, dunque, era che gli esseri umani non fossero naturalmente parte del contratto sociale, e che dovevano venirvi inclusi. La storia della modernità occidentale negli ultimi trecento anni può essere vista come una continua battaglia per l’inclusione nel contratto sociale. Fino a poco tempo fa, i gruppi sociali che continuavano a rimanere esclusi avevano la speranza di poter essere inclusi in un futuro prossimo. A partire dal 1980, invece, il movimento di inclusione è finito, e assistiamo a un opposto movimento di esclusione, che procede secondo due aspetti: quelli che erano già entrati a farne parte ne vengono esclusi, non possono più affidarsi allo Stato per essere protetti socialmente, e non hanno speranza di potervi rientrare di nuovo (il post-contrattualismo), mentre i loro figli sanno che non entreranno mai a far parte del contratto sociale, e che se dovessero ottenere dei benefici li otterranno non dallo Stato ma grazie alla filantropia (pre-contrattualismo). Mentre il pre-contrattualismo e il post-contrattualismo continuano ad espandersi, il contrattualismo si ridimensiona. Il rischio è il fascismo sociale”.

Sulla valutazione dei docenti universitari. Cesare Segre, La quantità non è un criterio per valutare il merito, “Corriere della Sera” di venerdì 6 febbraio 2009, p. 47: “Eccoci al punto. La valutazione non può essere un calcolo, è un giudizio, di una persona precisa su un oggetto preciso. Il giudizio richiede competenza in chi giudica, e analisi scrupolosa dell’oggetto giudicato, che non è un numero, ma un prodotto dell’intelligenza. Il giudizio non sarà mai assoluto, non solo perché il giudice può sbagliare, ma anche perché può avere preconcetti, finalità exstrascientifiche, eccetera. Ma il rimedio non sta nel cercare un’oggettività impossibile, sta nel rendere il giudizio pubblico, e perciò contestabile se fazioso, sta nel ricorrere al giudizio di altri specialisti, magari mediante un dibattito. Ognuno mette in gioco la propria competenza. Ci sarebbe allora da domandarsi perché oggi, come risulta da questi tentativi di valutazione senza giudizio, si sia così incapaci di giudicare e renitenti all’essere giudicati, ma è un altro discorso”.

Lettura e angoscia. Si veda l’intervista di Benedetta Craveri a Pascal Quignard, Il senso di Quignard, “La Repubblica” di martedì 3 marzo 2009, p. 40: “La lettura è la passione della mia vita. Credo che mi sarei suicidato se fossi vissuto in una società senza scrittura. Senza che mi fosse data questa possibilità di appartarmi. Nella lettura si cessa di essere se stessi, di appartenere alla propria epoca, alla propria patria, di vivere in uno spazio e in un tempo definiti. E’ un’esperienza molto pericolosa e capisco assai bene che la gente non legga. La perdita d’identità, l’oblio di sé generato dalla lettura ha a che fare tanto con l’estasi quanto con la devastazione. Quando si penetra in un altro pensiero o in un altro mondo si ha paura di uscirne diversi. E a ragione. In effetti ci si espone a delle metamorfosi totali, delle rivoluzioni, delle implosioni psicologiche, a delle crisi religiose. Ci si trova confrontati all’utopia, alla solitudine, alla rivolta, all’aporia, al segreto, all’estraneità, all’ateismo, al dubbio, alla non società (perché la società non è un valore). E mentre le parlo mi rendo conto che sto facendo la lista dei valori messi al bando dalle maggioranze religiose e politiche.

Possiamo dire che uno dei principi della sua scrittura sia proprio l’angoscia?

Ho impiegato molto tempo a capire che l’angoscia è un’eccellente maestra di vita. Soprattutto bisogna guardarsi dal prendere i medicinali che i medici ci prescrivono per rendere la giornata gradevole e la vita accomodante. Bisogna dirigerci dolcemente là dove l’angoscia teme di condurci. Le società attuali rimuovono i pensieri che generano turbamento ma, a mio avviso, si tratta di un terribile errore. Perché il pensiero difficile a pensare, penoso per chi lo pensa, è il solo che conduce a una grande gioia. Più passa il tempo e più sono convinto, checché ne dicano Sarkosy o Berlusconi, che la più meravigliosa delle cose che si trovano su questa terra, dietro alla lettura, dietro al pensiero, dietro alla libertà è lo studio”.

Relativismo e nichilismo. Scrive Franco Volpi, Contro Nietzsche, “La Repubblica” di venerdì 10 aprile 2009, p. 47, a commento delle parole di Benedetto XVI pronunciate contro il filosofo tedesco Nietzsche durante la messa del giovedì santo: “… dopo che la storia ci ha insegnato che spesso il possesso della verità produce fanatismo, e che un individuo armato di verità è un potenziale terrorista, vien fatto di chiedere: il relativismo e il nichilismo sono davvero quel male radicale che si vuol far credere? O essi non producono anche la consapevolezza della relatività di ogni punto di vista, quindi anche di ogni religione? E allora non veicolano forse il rispetto del punto di vista dell’altro e dunque il valore fondamentale della tolleranza? C’è del bello anche nel relativismo e nel nichilismo: inibiscono il fanatismo”.

Modernità liquida. La definizione è di Zygmunt Bauman, Per un welfare planetario, “Micromega” 4/2009, pp. 178-179: “Il termine <<modernità liquida>> denota lo stato, attualmente dominante, della condizione moderna, chiamata anche, da altri autori, con i nomi di “postmodernità”, “tarda modernità”, “seconda modernità” o “ipermodernità”. Ciò che rende “liquida” la modernità è la compulsiva e ossessiva, inarrestabile e in accelerazione “modernizzazione”, attraverso la quale – proprio come i liquidi – nessuna forma di vita sociale è in grado di conservare a lungo la propria forma”.

Che ne è della cultura nella “società liquida”? Scrive Bauman, cit., p. 179: “Questa nostra società è una società di consumatori e, così come il resto del mondo è visto e vissuto attraverso i consumatori, la cultura diventa un contenitore di prodotti pensati per il consumo – in competizione tra loro nell’impresa di attrarre l’instabile attenzione dei potenziali consumatori e di mantenerla per più di un attimo. La cultura sta diventando ora uno dei reparti del grande magazzino “tutto quello di cui hai bisogno e che sogni”, nel quale si è trasformato il mondo abitato dei consumatori.

Sulla valutazione dei docenti di italiano. Massimo Raffaeli, Quando i cardellini cinguettavano in classe, “La Stampa-Tuttolibri” di sabato 23 maggio 2009, p. VII: “Non esiste purtroppo uno studio sull’italiano scritto degli insegnanti: è vero che alcuni sono rispettabili studiosi e autori riconosciuti (per esempio Edoardo Albinati, Domenico Starnone, Marco Lodoli, Paola Mastrocola, Erarldo Affinati, Margherita Oggero) ma gli altri, la stragrande maggioranza?

La domanda equivale a un allarme: come può correggere uno scritto chi non ha mai avuto l’obbligo o sentito la necessità di scrivere, chi in effetti non scrive dalla tesi di laurea e lo fa, da tempo immemorabile, soltanto sul registro o nel retro d’un compito in classe?”.

Nichilismo. Scrive Michel Foucault, L’arte di vivere senza verità, in “Lettera Internazionale” 100/2009. Estratto ne “La Repubblica” dell’1 luglio 2009, p. 43 (traduzione di Stafano Salpietro): “Il nichilismo deve essere considerato in primo luogo una figura storica particolare appartenente al XIX e XX secolo, ma deve anche essere inscritto nella lunga storia che l’ha preceduto e preparato, quella dello scetticismo e del cinismo. In altre parole, deve essere visto come un episodio o , meglio, come una forma, storicamente ben definita, di un problema che la cultura occidentale ha cominciato a  porsi già da molto tempo: quello del rapporto tra la volontà di verità e stile di esistenza.

Il cinismo e lo scetticismo sono stati due modi di porre il problema dell’etica della verità. La loro fusione nel nichilismo mette in luce una questione essenziale per la cultura occidentale, che può essere formulata in questo modo: quando la verità è rimessa continuamente in discussione dallo stesso amore per la verità, qual è la forma di esistenza che meglio si accorda con questo continuo interrogarsi? Qual è la vita necessaria quando la verità non lo è più? Il vero principio del nichilismo non è: Dio non esiste, tutto è permesso. La sua formula è piuttosto una domanda: se devo confrontarmi con il pensiero che “niente è vero”, come devo vivere? La difficoltà di definire il legame tra l’amore della verità e l’estetica dell’esistenza è al centro della cultura occidentale. Ma non mi preme tanto definire la storia della dottrina cinica, quanto quella dell’arte di esistere. In un Occidente che ha inventato tante verità diverse e che ha plasmato tante differenti arti di esistere, il cinismo serve a ricordarci che ben poca verità è indispensabile per chi voglia vivere veramente e che ben poca vita è necessaria quando si tenga veramente alla verità”.

Sulla differenza tra cattolici e clericali, si legga Massimo L. Salvadori, La differenza tra cattolici e clericali, “La Repubblica” di venerdì 21 agosto 2009, p. 35: “I fondamenti della grammatica concettuale possono essere distorti per trascuratezza o ignoranza, ma anche per un calcolo strumentale. E’ il caso dell’uso, diventato in Italia corrente dei termini “laici” e “cattolici”, secondo cui i primi sono i non credenti, coloro che non intendono dare alla Chiesa cattolica tutti i diritti che le spettano, e i secondi gli appartenenti, tout court in quanto cattolici, al fronte contrario. Ed è naturale che siffatta distinzione-opposizione, la quale altro non è che una grande confusione-distorsione, piaccia assai alle gerarchie cattoliche, perché essa altera e nasconde la vera distorsione-opposizione: quella tra “laici” e “clericali”. Bisogna dire che davvero offende che si sia dimenticata, sovente anche da parte di molti che si qualificano come laici e si sono tranquillamente adattati alla confusione, la lezione di grandi studiosi non credenti e credenti, cattolici e non cattolici, quali Francesco Ruffini, Gaetano Salvemini, Carlo Arturo Jemolo, per citare pochissimi nomi esemplari. I quali hanno insegnato che laici non vuol dire non cattolici, che cattolici non significa non laici,  che i laici sono i non clericali indipendentemente dal fatto di essere o non essere credenti, cattolici o non cattolici e  che i cattolici si dividono a loro volta in clericali e non clericali. Una grammatica concettuale, questa, ben chiara a suo tempo, ma che appare oggi in Italia largamente dimenticata.”

Laicità. Detto questo, l’articolo di Salvadori sopra citato continua con la definizione di laicità, che non bisogna mai dimenticare: “Laicità è libertà per tutti; è rispetto dei diritti di ogni individuo e gruppo di seguire ciò che detta la coscienza, di praticare, organizzandosi, la propria filosofia, ideologia e religione, senza violare i diritti altrui e pretendere di acquisire posizioni di monopolio o di predominio in forza di privilegi e della discriminante protezione del potere politico; è creazione di un luogo aperto in cui le frontiere delle credenze si formano e si spostano unicamente per spontaneo consenso; è confronto paritetico tra le verità che si ritiene di possedere e si vogliono divulgare; è riconoscimento reciproco della dignità di tutte le visioni del mondo non violente, del diritto di dibattito e confronto; è rinuncia al ricorso di bracci secolari per far prevalere le une a danno delle altre. Per questo la laicità è un’idea universalistica che nessuno esclude e tutti comprende; e che richiede uno Stato laico, di diritto, tutore del pluralismo culturale, religioso e sociale.”

Sport e gioco. Scrive Franco La Cecla, Il prezzo che si paga per divieti e restrizioni, “La Repubblica” di venerdì 28 agosto 2009, p. 43 e 45: “Lo sport è ciò che la società offre ai ragazzi in cambio della rinuncia allo spazio del gioco. In qualche modo è una forma di iniziazione alla competitività in vista del mondo del lavoro ed è un modo di dirottare, sublimare l’aggressività giovanile dentro un’arena controllabile.  (…) Ed è molto singolare sport ed attività fisica siano diventati un sinonimo. I ragazzi della via Pal facevano sport? I ragazzi del film “La guerra dei bottoni” facevano sport? E quando da bambini nel mare di Sicilia passavamo ore a giocare tra spiaggia, mare e sottomare facevamo sport?

Una delle condizioni per fare sport è che l’attività fisica si svolga in luoghi precisi e con delle regole precise “controllabili” (dagli adulti). Allora è chiaro che i bambini di Reggio Calabria o di Palermo, di Salerno o di Bari che giocavano a calcio per strada non facevano sport. Ed è anche chiaro perché non si può più giocare per strada nelle nostre città. (…) Lo sport ovviamente ha ridotto lo spazio del movimento giovanile, contribuendo a istituzionalizzarlo e a renderlo “funzionale” (…)”.

Élites. Ecco cosa ne scrive Carlo Galli, Il cinismo delle élite, “La Repubblica” di sabato 5 settembre 2009, p. 31: “Le nostre élites sembrano non volersi più sobbarcare il peso del rigore disciplinato che è necessario per articolare in chiave universale i propri interessi particolari, per coniugare al futuro, e non nella miopia dell’eterno presente i verbi dell’agire sociale; per essere esempio civile. A parte le splendide individualità o i piccoli gruppi isolati di eccellenza che spesso hanno vita difficile – le élites italiane corrono il rischio di trasformarsi in corporazioni chiuse (a volte dinastiche, con modalità nepotistiche di trasmissione del potere),  in un pulviscolo di piccoli e grandi privilegi o di snobismi, in Palazzi o Caste (non solo della politica); lungi dall’esibire l’orgoglio del merito, i membri delle élites aspirano piuttosto ad essere vip; anziché vigilare sulle modalità di ingresso, di selezione, di addestramento dei propri membri, rilassano le pratiche di controllo, chiudono un occhio su insufficienze e infrazioni (purché sia garantita la docilità dei nuovi entrati).

E’ il cinismo delle élites – facilmente trasmesso all’intero corpo sociale – una delle più gravi tare del Paese, l’origine della sconnessione tra morale e politica, della corrosione dello spazio civile, del frammentarsi del discorso pubblico in una congerie di particolarismi dialettali. Ed è anche l’origine – oltre che il prodotto –  dei tentativi della politica di polverizzare la società attraverso il combinato disposto della propaganda e del populismo”.

I “giri”.  Un discorso affine a quello di Carlo Galli sulle élites lo fa Gustavo Zagrebelskj, Le oligarchie dei “giri” che infettano la democrazia, “La Repubblica” di venerdì 26 marzo 2010, pp. 1 e 38: egli scrive: “I giri sono la nostra costituzione materiale. Ci si scambia protezione e favori con fedeltà e servizi. Questo scambio ha bisogno di “materia”. Occorre disporre di risorse da distribuire come favori; per esempio: danaro e impieghi, carriere e promozioni, immunità e privilegi. Occorre, dall’altra parte, qualcosa da offrire in restituzione: dal piccolo voto (il voto “di scambio”), all’organizzazione di centinaia o migliaia di voti che si controllano per ragioni di corporazione, corruzione e criminalità, fino alle prestazioni personali o per interposta persona, oggi soprattutto per sesso interposto. L’asettico “giro” in realtà è una cloaca e questo è il materiale infetto che trasporta.

Qual è la forza che lo muove? Poiché la protezione e i favori stanno su e la fedeltà e i servizi giù, dietro le apparenze di allegre comunelle e della combutta innocente, si annidano sopraffazione e violenza. Distribuendo favori, può sembrare un sistema benefico, una forma di democrazia come potere per il popolo. Ma non è così. Ognuno vede nell’altro solo risorse da sfruttare. Ogni giro e un crogiolo di rivalità e ferocia e di gradini, da pestare per salire più in alto. Sul più alto e su quello più basso troviamo solo arroganza  e solo servilismo. Padroni e servi, a tutti i livelli del giro, sono legati da patti, ma patti tra complici. La fedeltà ai patti è garantita da favori e minacce, blandizie e intimidazioni e ricatti. Quando nello scambio entrano anche organizzazioni criminali, non è esclusa la violenza. Non pochi delitti politici nel nostro violento Paese si spiegano così.

Dove si alimenta la forza che alimenta i giri? Nella diseguaglianza e nell’illegalità”.

Critica letteraria. Scrive Alfonso Berardinelli, La critica libera è quella “inutile”, “Corriere della Sera” di martedì 4 maggio 2010, p. 41: “La critica letteraria deperisce facilmente se non è critica della cultura (…). Ma oltre che critica della cultura, delle idee, dei linguaggi e delle istituzioni sociali, la critica è un’impresa letteraria individuale. Per essere praticata richiede un certo grado di ispirazione (amore e odio, ammirazione e aggressività (…). Infine, la critica è impotente, deve esserlo, guai se si illude di cambiare le cose. La sua libertà di giudizio è complementare alla sua inefficacia pratica”.

Diseguaglianza. Si legga Gad Lerner, Il profitto e l’operaio, “La Repubblica” di sabato 26 giugno 2010, p. 1 e 27, per avere un’idea precisa della diseguaglianza esistente oggi nel mondo: “Il primo ministro del governo italiano ha percepito nel 2009 un reddito pari a 11.490 (undicimilaquattrocentonovanta) volte il reddito di un operaio Fiat di Pomigliano d’Arco.  Le cedole della sua quota personale di Fininvest (Silvio Berlusconi detiene il63,3 % dell’azienda, escluse le azioni possedute dai figli) gli hanno fruttato l’anno scorso un dividendo di 126,4 milioni di euro. Cifra che corrisponde per l’appunto a 11.490 volte il reddito di un lavoratore metalmeccanico di Pomigliano  che nello stesso periodo ha risentito della cassa integrazione portando a casa 11.000 (undicimila) euro lordi.  In altri termini, la persona fisica del nostro primo ministro ha guadagnato  nel 2009 due volte 8e più) il monte salari dell’intero stabilimento al centro della drammatica vertenza che sta rimettendo in gioco le relazioni sindacali del paese.

Nello stesso periodo, l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne,  ha percepito un compenso di 4 milioni e 782 mila euro, pari a 435 volte il reddito di un suo dipendente di Pomigliano. Tale cifra comprende il bonus che la Fiat ha deciso di attribuirgli per il 2009, mentre l’attività svolta dal manager italo-canadese negli Stati Uniti per Chrysler è stata fornita a titolo gratuito.

Credo che non sia più possibile discutere di giustizia sociale e di redistribuzione del reddito, ma anche di economia e finanza, prescindendo da queste nude cifre”.

Neo-liberismo. Una descrizione del neo-liberismo è in Michel Féher, La sinistra?  Deve entrare in Borsa, Intervista rilasciata a Anna Maria Merlo, “Il Manifesto” di mercoledì 28 luglio 2010, p. 9: “Il grande successo del neo-liberismo, la sua forza, non è stata solo di proteggere gli interessi dei proprietari ma nel far sì che la maggioranza si identificasse con i proprietari, anche se non lo era. I piccoli risparmiatori hanno avuto accesso al mercato finanziario con i fondi pensione, i fondi di investimento, lo stock optional, eccetera. Si è arrivati al paradosso di chi dice: accetto la moderazione salariale perché questo farà salire il valore delle azioni. Anche i più poveri sono entrati in questo meccanismo, attraverso l’accesso facile al credito, si identificano come i proprietari che non sono ancora ma che sperano di diventare. Hanno ipoteche sulla casa da rimborsare e difendono la diminuzione delle tasse che permette loro di rimborsare il credito”.

Governance. La definizione è di Benedetto vecchi, Governance. Un placebo contro il populismo, “Il Manifesto” di giovedì 24 febbraio 2011: “Come un virus il temine si è diffuso nel lessico del diritto, della teoria politica, della filosofia. La governance può indicare la riduzione del governo a “amministrazione delle cose”, cioè quella forma del socialismo del capitale che caratterizza ormai le forme pubbliche, oppure quella “terra di nessuno” prodotta dalla crisi della democrazia rappresentativa. Ogni volta che viene usato il termine, serve quindi una continua opera di traduzione, perché la governante è un termine che viene sempre più usato per occultare le forme del comando.

La governance esprime dunque la crisi della democrazia rappresentativa che le soluzioni a quella crisi con lo scopo di garantire la riproduzione dello status quo. Soluzioni placebo rispetto al populismo postmoderno. Importanti sono però le forme che la governance assume. Sorella del populismo è quindi da considerare un terreno di scontro e non una innocente rappresentazione di una discussione pubblica dove scompaiono le asimmetrie di potere presenti nella realtà”.

Chierici. Scrive Paolo Maninchedda, Perché lo Stato dovrebbe ancora pagare gli stipendi ai professori universitari di filologia?, “Belfagor” 2/2011, pp. 226-227: “… i chierici moderno per impedire ogni dominio hanno moltiplicato la legittimità di qualsiasi interpretazione, hanno affermato la prevalenza della retorica sulla realtà, e in questo modo hanno creato l’ideologia di internet prima che internet esistesse. Combattendo contro ogni potere (compreso quello terribile del rimorso) hanno abolito qualsiasi responsabilità. Hanno indicato una nuova frontiera della libertà: inventarsi la vita, costruirla interamente sul potere del linguaggio e dei linguaggi, sui segni, obliterando le colpe e le virtù, la natura e il potere. Fu allora che nacque la realtà virtuale (…), la cui caratteristica principale è l’irresponsabilità: i comportamenti non sono reali, ma virtuali, cioè giocosi e reversibili, mai drammatici e irreversibili, potentemente egoistici e irresponsabili (…). Il risultato di questo processo di liberazione è l’abbandono della vita reale a forme più sofisticate e terribili di dominio globale; è la crisi drammatica e violenta della coesistenza pacifica delle diverse identità; è la derubricazione del pluralismo e della tolleranza (ossia la legittima esistenza di interpretazioni e affermazioni diverse) a relativismo negativo (ogni interpretazione vale l’altra e tutte valgono zero) (…). Mentre l’umanità si trasformava in una comunità di schiavi che vivono da liberi nella virtualità, si è voluto che la critica si occupasse del linguaggio dei sogni virtuali e abbandonasse la critica della storia.

C’è dunque una ragione politica per ripristinare il nesso tra filologia, testi e realtà: rompere l’imperante egemonia della finzione della realtà che impedisce il formarsi di un pensiero chiaro, critico, personale e sicuro (non dogmatico)…”.

Riots. A proposito dei Riots, che nei primi giorni dell’agosto 2011 misero a ferro e a fuoco un quartiere di Londra, scrive Howard Jacobson, Noi, padri della peggio gioventù, “La Repubblica”  di martedì 23 agosto 2011, p. 45: “Gli ultimi anni sono stati nauseabondi. Quella particolare forma di saccheggio nota come furto monetario continua a infuriare incontrollato. Gli sciacalli dell’economia portano il mondo sull’orlo della rovina. Non abbiamo bisogno che il divario tra ricchi e poveri ci venga illustrato sotto forma di percentuali, la bruta realtà è sotto i nostri occhi, nei negozi come nelle strade e nei ristoranti delle nostre città più ricche. Un bonus di un qualunque funzionario di banca basterebbe probabilmente a pagare tutta la roba che è stata rubata la settimana scorsa. E noi non abbiamo nemmeno la decenza di nascondere l’ampiezza di questa razzia legalizzata a gente per la quale, senza voler fare del sentimentalismo, un paio di scarpe da ginnastica rappresenta qualcosa di straordinario”.

Ideologie. Ecco come Marcel Gauchet in un’intervista concessa a Fabio Gambaro, Le democrazie emotive, “La Repubblica” di merco9ledì 24 agosto 2011, p. 57, descrive l’ideologia imperante oggi: “… non controllare politicamente l’economia è una scelta politica. L’idea che i mercati siano capaci di autoregolarsi, senza che non si possa o non si debba intervenire, è un’ideologia politica che si è imposta negli ultimi decenni dominati dal neoliberalismo. Non sono le cose che hanno preso il potere, siamo noi che l’abbiamo conferito loro. Diciamo spesso che viviamo in un mondo post-ideologico, dove non ci sarebbero più le ideologie, ma non è vero. Le ideologie coi sono eccome, anche se spesso le loro conseguenze vengono presentate come un dato di natura”.

Mercato. Ecco cosa ne scrive Giorgio Ruffolo, Il mercato impossibile, “La Repubblica” di sabato 27 agosto 2011, p. 37: “Ma la crisi americana va molto al di là dell’ormai famoso fenomeno dei su-prime (proliferazione dei crediti immobiliari rischiosi). Essa affonda le sue radici in una condizione di progressiva distribuzione squilibrata dei redditi. La liberazione dei movimenti di capitali promossa dai Paesi anglosassoni all’inizio degli anni Ottanta, promuovendo un ritorno del capitalismo all’obiettivo del massimo profitto nel minimo tempo, ha esasperato, a causa della globalizzazione e del mutato rapporto di forza tra capitale e lavoro (e tra capitalismo e stati nazionali), le diseguaglianze. La politica dei redditi, cardine di un compromesso storico tra capitalismo e democrazia, nel quale il capitalismo accettava una “normalizzazione” dei profitti ed i sindacati dei lavoratori una moderazione delle loro rivendicazioni, è saltata. La diseguaglianza tra redditi di capitale e redditi di lavoro è diventata mostruosa.  Gli effetti depressivi di tale “mutazione” capitalistica sulla domanda sono stati brillantemente evitati grazie a un ricorso massiccio all’indebitamento e al suo continuo rinnovo. L’economista Marc Bloch ha affermato che il capitalismo finanziario era divenuto il solo regime economico nel quale i debiti non si pagano mai. La liquidità mondiale della moneta (nelle sue forme più varie) aveva raggiunto per effetto di questa accumulazione debitoria nei riguardi dei posteri, nel 2007, alla vigilia della crisi, un livello stratosferico,  superiore di dodici volte a quello del prodotto reale mondiale. Purtroppo, però, neppure i mercati fanno miracoli. Le onde che si accavallano finiscono per infrangersi sulla riva”.

Capitalismo finanziario. Scrive Giorgio Agamben, Se la feroce religione del denaro divora il futuro, “La Repubblica” del 16 febbraio 2012: “… il capitalismo finanziario – e le banche che ne sono l’organo principale – funziona giocando sul credito – cioè sulla fede – degli uomini.

Ma ciò significa, anche, che l’ipotesi di Walter Benjamin, secondo la quale il capitalismo è, in verità, una religione e la più feroce e implacabile che sia mai esistita, perché non conosce redenzione né tregua, va presa alla lettera. La Banca – coi suoi grigi funzionari ed esperti – ha preso il posto della Chiesa e dei suoi preti e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. E lo fa nel modo più irresponsabile e privo di scrupoli, cercando di lucrare denaro dalla fiducia e dalle speranze degli esseri umani, stabilendo il credito di cui ciascuno può godere e il prezzo che deve pagare per esso (persino il debito degli Stati, che hanno docilmente abdicato alla loro sovranità). In questo modo, governando il credito, governa non solo il mondo, ma anche il futuro degli uomini, un futuro che la crisi fa sempre più corto e a scadenza. E se oggi la politica non sembra più possibile, ciò è perché il potere finanziario ha di fatto sequestrato tutta la fede e tutto il futuro, tutto il tempo e tutte le attese.

Finché dura questa situazione, finché la nostra società  che si crede laica resterà asservita alla più oscura e irrazionale delle religioni, sarà bene che ciascuno si riprenda il suo credito e il suo futuro dalle mani di questi tetri, screditati pseudo sacerdoti, banchieri, professori e funzionari delle varie agenzie di rating. E forse la prima cosa da fare è smettere di guardare soltanto al futuro, come essi esortano a fare, per rivolgere invece lo sguardo al passato. Soltanto comprendendo che cosa è accaduto e soprattutto cercando di capire come è potuto avvenire sarà possibile, forse, ritrovare la propria libertà. L’archeologia – non la futurologia – è la sola via di accesso al presente”.

Notare la conclusione, che indica una possibile linea di pensiero e di azione.

Beni comuni e beni pubblici. Ci spiega la differenza Marco D’Eramo, A Manhattan, “Alfabeta2”, a. II (2012), n. 6, p. 31: “Il bene comune si inserisce sempre in un orizzonte proprietario, ma lo estende al di là della proprietà individuale, in una proprietà appunto comune ai membri della comunità che così ne viene definita. A differenza del bene pubblico, il bene comune esclude chi non appartiene alla comunità. Al contrario, il bene pubblico non s’inserisce nell’orizzonte concettuale della proprietà: è difficile rispondere alla domanda: chi è proprietario della scuola pubblica? E il bene pubblico non esclude: il servizio sanitario nazionale cura anche chi non appartiene alla nazione, per esempio gli emigrati extracomunitari. Insomma il bene pubblico non è proprietà di tutti, ma è proprietà di nessuno, esula cioè dalla sfera proprietaria”.

Recensire. Riflessione su che cosa significhi scrivere una recensione critica in Alberto Manguel, Le zapping del lettore, “La Repubblica” di domenica 22 gennaio 2012, pp. 44-45: “… in un senso primordiale, fare la critica di un libro, oltre a dichiarare se ci è piaciuto o meno, invita a riflettere su un certo argomento di cui il libro supponiamo si occupi. Questa riflessione, per risultare di qualche interesse a un altro lettore, non dev’essere una pedissequa ripetizione del libro in questione,. Ma un saggio meditativo, uno sforzo per proporre intuizioni dedotte e conoscenze intrecciate sull’argomento. Quando leggo testi critici non mi interessa leggere il riassunto di un libro fatto da qualcun altro”.

Citazione e critica letteraria. Scrive Emanuele Trevi, Pamuk. Mie macchine empatiche. Recensione a Orhan Pamuk, Romanzieri ingenui e sentimentali, “Il Manifesto-Alias” dell’11 marzo 2012, p. 3: “A mio parere la citazione è il centro del ragionamento critico, Scegli la citazione, diceva Cristina Campo, e poi fai crescere il tuo discorso “come un rampicante fra i sassi”. Ma la temperatura dell’interpretazione, per produrre un risultato apprezzabile, deve essere altissima, o magari glaciale. Oggi, invece, trionfa il tiepido,  e si maschera ogni mediocrità col ricorso al <<senso comune>>, che è il degno corrispettivo filosofico del romanzo da classifica. Per tornare alla citazione, bisognerebbe fidarsi di essa solo quando è la traccia di un’ossessione, qualcosa che ritorna alla stregua di un sintomo. Perché basta riappropriarsi di se stessi, e dissolvere il velo di maya delle cazzate che ci circondano, e la letteratura ritorna ad essere quello che è sempre stata, parole che si incidono nella mente e nel cuore, parole-destino, roba che non si consuma: malattie, tatuaggi, formule magiche”.

Creolizzazione. Ne parla Édouard Glissant, Una jam session resistente, “Il Manifesto” di venerdì 13 aprile 2012: “Uno dei miei rimpianti è che tutti i tentativi, in Occidente, di preparare una riforma dei rapporti dell’uomo con se stesso e con ciò che lo circonda, sono ancora auto-centrati, non considerano il campo assolutamente spaventoso di complessità di ciò che accade nel mondo, per tentare di avvia re questo cambiamento. Solo cinquant’anni fa, tutti i manuali di linguistica cominciavano con un capitolo sulle lingue indoeuropee, perché si pensava che esse costituissero il basamento, l’origine.

Oggi, tutti i manuali di linguistica, sia quelli più scientifici sia quelli destinati alla volgarizzazione, cominciano con un capitolo sulle lingue creole. Perché ci si dice: non abbiano assistito alla nascita delle lingue; forse possiamo trarre vantaggio dal vedere come queste lingue siano apparse bruscamente e in maniera così fulminante tra il XVI e il XVII secolo e siano arrivate fino a noi.  Si può imparare qualcosa da questo, e che cosa si impara? Si impara che tutte le lingue all’inizio sono creole, che la lingua francese all’inizio è una lingua creola, che l’italiano è all’inizio una lingua creola – che sono approcci, mescolanze, tentativi, rifiuti, ribellioni, tra lingue regionali, classicismi del pensiero o dell’inconscio e che queste mescolanze hanno finito, in maniera imprevedibile e imprescindibile, con il fare una lingua. Oggi si sa questo. Oggi si può dire, a meno che non ci sia qualcuno che non sia d’accordo, che la lingua francese, ai suoi inizi, è una lingua creola; e io mi spingo ancora più lontano, dico che Rabelais è un autore creolo.

Dunque, la creolizzazione può offrire, non modelli, perché nessuno al mondo oggi ha il diritto di proporre modelli, ma approcci di struttura e di destruttura nel nostro universo, ed è in questo che la creolizzazione è importante. A una condizione: ovvero che non la si consideri come uno stato, perché la creolizzazione è un processo, ed è un processo inarrestabile. E’ questa la mia posizione, oggi. Può darsi che cambi, ma penso che il mondo intero si stia creolizzando e che di conseguenza tutte le parti del mondo in cui esiste la parola dettata di Dio comincino, che lo vogliano o no, a sentire la parola degli altri dei, già barbari e nemici.

Non faccio l’apologia delle lingue creole, faccio l’apologia della creolizzazione. Non è  la stessa cosa. Ci sono giovani scrittori antillesi che prendono a riferimento il mio lavoro e che della creolità hanno fatto un manifesto. E io dico loro che la creolità, come la latinità, è, oggi, qualcosa di assolutamente caduco nel mondo. Non si può tifare per i creoli, né per le lingue creole, né per le letterature creole. Quello che difendo è il principio continuo della creolizzazione. Che è cosa ben diversa.”

Critica letteraria. Roberto Bolano, Dalla politica alla scoperta della letteratura, “La Repubblica” di domenica 8 aprile 2012, p. 53, interpreta la critica letteraria in questo modo: “Per me, la critica letteraria è un settore della letteratura. La letteratura è prosa, romanzo e racconto, drammaturgia, poesia e anche saggio e critica. E credo che, soprattutto nei nostri paese, ci sia un estremo bisogno di una critica non casuale, non quella da dieci righe su un autore che probabilmente il critico non leggerà mai più; in altre parole, c’è bisogno di una critica che pian piano ricomponga il paesaggio della letteratura.

La critica la vedo come creazione letteraria, non solo come il ponte che unisce lo scrittore al lettore. Se il critico letterario non si considera un lettore, butta tutto alle ortiche. La cosa interessante del critico letterario, ed è lì che chiedo creatività alla critica letteraria, creatività a tutti i livelli, è che si consideri un lettore, e un lettore endemico, capace di discutere una lettura, di proporre diverse interpretazioni, insomma di produrre qualcosa di completamente diverso da quello che è di solito la critica, e cioè una specie di esegesi o diatriba” [Bolano porta a modello di critica Bloom e Steiner].

Laicità. Tzvetan Todorov intervistato da Maurizio Bettini, ne “La Repubblica” di lunedì 13 dicembre 2013, p. 37, su che cosa sia la laicità, afferma: “In democrazia lo Stato non si confonde con una cultura unica, accorda gli stessi diritti a tutti i cittadini, credenti o atei, cristiani, buddisti, ebrei o musulmani. Esigere oggi che tutti abbiano la stessa fede significherebbe rinunziare al carattere secolare dello Stato, confondere le sfera delle convinzioni personali con quella delle norme collettive, come facevano gli stati totalitari. L’unità della legge non ha lo scopo di imporre l’i può amare la propria chiesa senza dover chiedere nello stesso tempo di chiudere le moschee. E’ anche per questo che il crocifisso, nella scuola pubblica, non è al suo posto”.

Esistono ancora le classi sociali? Carlo Altini, Perché l’antipolitica aiuta il capitalismo, “Il Manifesto” di venerdì 17 maggio 2013, p. 15, risponde di sì: “In primo luogo abbiamo la classe cosmopolita – invisibile e “senza luogo” – dei proprietari globali dell’economia finanziaria e industriale.  Caratteristica fondamentale di questa classe consiste nell’essere un “potere indiretto”, particolarmente efficace in quanto opera in assenza del vincolo di rappresentanza, di trasparenza e di territorialità. Organicamente collegata alla classe dominante si è strutturata una classe intellettuale composita – organizzata sia su base nazionale che su base transnazionale –  che gestisce la “sovrastruttura” ideologica del capitalismo contemporaneo: questa classe comprende giornalisti, pubblicitari, scrittori per i media, scienziati e professori universitari, il cui compito consiste nella produzione e diffusione di una sfera simbolico-culturale funzionale alla riproduzione del sistema economico. A un livello inferiore la classe degli alti funzionari, che comprende una pluralità di soggetti sociali adatti al funzionamento del sistema: dagli amministratori delegati ai manager della produzione, dai diplomatici ai funzionari statali, ivi compresi gli uomini politici. Agli ultimi gradini della scala troviamo due categorie sociali divise solo da un diverso stato giuridico (…): da un lato, impiegati dello Stato, operai delle grandi organizzazioni industriali e commerciali, dipendenti del mondo finanziario; dall’altro lato, gli “ultimi” del mondo, cioè i lavoratori delle piccole imprese, i precari, i disoccupati e i migranti. Alla luce di questo nuovo quadro sociale non è lontano dal vero affermare che oggi i capitalisti comandano, i tecnici governano, i politici canalizzano il consenso e gli intellettuali rendono desiderabile il sistema, tanto da rendere evidente la vittoria teorica del marxismo dopo la crisi del marxismo”.

Noi. “… che cosa intendiamo davvero dire, e fare, quando diciamo “noi”? Ce lo spiega Maurizio Ferraris, Il ritorno del noi, “La Repubblica” di mercoledì 29 maggio 2013, p. 35: “Il punto rilevante è che, contrariamente alle apparenze, l’uso del “noi” è funzionale, più che a una identificazione, a una eslusione. Dal “noi spiriti liberi” di Nietzsche al “noi padani”, al “noi moderni”, lo scopo principale del “noi” sta nel costruire un’aggregazione in cui un singolo si autonomina rappresentante di una classe, ma, ancor più, nel generare il fantasma dei “loro”, degli altri, di quello che non sono noi. (…) Ecco perché, a mio avviso, uno degli scopi centrali della filosofia come critica della ideologia deve consistere proprio nella condanna della finzione universalizzante del “noi”.

Carcere. Dopo aver constatato l’enorme incremento della carcerazione, negli ultimi anni, negli Stati Uniti, Loïc Wacquant, Ipercarcerazione. Come criminalizzare la povertà, “Alfabeta2 III/2013, n. 30, p. 6, scrive: “Ciò a cui stiamo assistendo è la genesi, non di un “complesso carcerario industriale”, (…) ma di un modello organizzativo autenticamente nuovo, un continuum carcerario-assistenziale parzialmente privatizzato che costituisce la testa di ponte del nascente Stato liberal-paternalista. La sua missione è di sorvegliare e soggiogare – e se necessario castigare e neutralizzare – le popolazioni refrattarie al nuovo ordine economico, in base a una divisione sessuata del lavoro che vede la componente penale occuparsi soprattutto degli uomini, mentre quella assistenziale esercita la propria tutela nei confronti delle (loro) donne e dei bambini. In coerenza con la tradizione politica americana consolidatasi durante l’era coloniale, questo composito assemblaggio istituzionale nascente è caratterizzato, da una parte, dalla profonda commistione tra settore pubblico e privato, e dall’altra dalla fusione tra i poteri di stigmatizzazione, correzione morale e repressione dello Stato”. Più avanti Wacquant afferma che lo Stato liberal-paternalisto “pratiuca il laissez-faire verso l’alto, nei confronti delle corporation e delle classi privilegiate, ma è invadente e disciplinare verso il basso, quando si tratta di gestire le conseguenze del disinvestimento sociale e della de regolazione economica tra le classi subordinate e i loro territori”.

[2013]

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