Centone galatinese I

Incominciare a scrivere. Si dice che la cosa più difficile sia incominciare a scrivere. Hai in mente una storia che merita d’essere raccontata, e non sai come cominciare. Ti trattiene la realtà, ti disturbano le normali attività di tutti i giorni, da cui non riesci a svincolarti; pensi che stai perdendo del tempo, e intanto non ti viene la frase appropriata, dal tono giusto, che dia il la alla storia. Come fare, dunque,  per incominciare?

Quando si è già rotto il ghiaccio e si sta raccontando una storia, dalla realtà ci si sente molto distanti, e non si ha motivo di ripensare a quel momento iniziale, che ormai ci siamo lasciati indietro. Raccontare è come fare un tuffo nel profondo del mare,  lasciarsi avvolgere dalle onde e trasportare dalle correnti, sott’acqua. La realtà appare appena visibile in lontananza, come una luce fioca che il subacqueo vede in alto mentre si avvia a risalire in superficie. Trattenendo il respiro, in apnea, nell’attesa di rivedere la luce del giorno, sale, sale lentamente, misurando le proprie forze, ben sapendo che la sopravvivenza dipenderà non dalla velocità della riemersione ma da un’attenta decompressione. L’arte del narrare e del tornare alla realtà somiglia molto a questo lento ritorno in superficie del subacqueo, che porta con sé le visioni multiformi del mondo marino. Una buona conclusione, allora, ecco quello che ci vuole. Una storia inconclusa rimanda all’idea di un subacqueo che non è riemerso e che ha conservato il segreto dell’ultima meraviglia veduta nel mondo sottomarino.

La cosa peggiore sarebbe affidarsi ad un atto di volontà, dire cioè: ho un’idea e voglio dimostrare che quest’idea è vera. Così si comincia male, perché ci si impone un vincolo, e alla fine la stessa volontà imprigionerà lo scrittore con le sue catene. La volontà determinata di dire può portare difatti ad esiti disastrosi. Per continuare la similitudine di prima, quella del subacqueo, so che molti pescatori sono morti dietro una cernia più grossa del solito, attratti nel profondo dalla volontà di non mollare la presa. Allora, è meglio non cominciare. Intendo dire che, se le parole non vengono da sole, è inutile star lì a cercarle col lanternino, perché non si troveranno tanto facilmente.

In realtà, non si dà mai vero inizio, perché noi con le nostre narrazioni non facciamo altro che partecipare ad una conversazione già avviata da altri scrittori. Prima di cominciare a scrivere, non c’è mai un profondo silenzio, ma un discorrere di secoli, talvolta un cicaleccio assordante, al quale noi pretendiamo di aggiungere la nostra voce. E’ nel nostro diritto, s’intende, sempre che si sappia di cosa si sta parlando.

Lo scrittore, quando inizia a scrivere, si trova nella situazione di un automobilista su uno svincolo autostradale, dal quale egli si debba immettere in velocità nel flusso di auto che scorre a cento all’ora. Solo un insensato chiederebbe a tutti di fermarsi, perché lui deve entrare in autostrada. La manovra è diversa: bisogna accelerare per immettersi più in fretta che si può nella colonna di auto in corsa, stando attenti a non causare un incidente. L’inizio di ogni scrittura non può che assomigliare a questa manovra, che riesce solo se ci si abbandona al flusso della narrazione e ci si inserisce senza tante storie nei millenari discorsi.

Va da sé che questa partecipazione prevede una diuturna lettura che trova il proprio proseguimento nella narrazione. C’è un momento infatti in cui bisogna mettere da parte i libri, e iniziare a scrivere. Marcel Proust diceva che la lettura a un certo punto può diventare un ostacolo e un impedimento al lavoro di uno scrittore. Del resto, credo che questo possa significare la storia raccontata nel Don Chisciotte, in cui il curato e il barbiere bruciano i libri dell’hidalgo impazzito. Fuor di metafora, l’autore spazza via buona parte della letteratura cavalleresca, rea di aver causato la pazzia di Don Chisciotte e così ci dice che la lettura può essere nociva, e pertanto deve essere impedita, abbandonata, perché possa nascere un nuovo personaggio, perché questo personaggio possa incarnarsi in un nuovo libro. <<Gli uomini che leggono, in realtà si tormentano con un castigo che si infliggono da sé…>> dice Thomas Bernhard (La cantina, p. 70). Ogni narrazione nasce dalle ceneri di libri precedenti, e il nuovo personaggio balla sempre intorno ad un falò di libri bruciati, che nessuno mai più leggerà, e peggio per chi li leggerà. Perciò la questione della lettura non riguarda solo il narratore, ma le nuove generazioni di lettori, che richiedono che venga raccontata loro una nuova storia. Se il fine del narratore e quello del lettore convergono, perché interrogarsi ancora su come cominciare a raccontare? Si apra il sipario, dunque, e la storia abbia inizio.

[2000]

Memoria. Scrive Claudio Magris, La memoria è libertà dall’ossessione del passato, “Il Corriere della Sera” del 10 febbraio 2005: “C’è tuttavia un ricordo negativo che pretende di legare irrimediabilmente gli uomini al passato, di pietrificarli come il volto di Medusa. Una memoria rancorosa che incatena l’animo al ricordo bruciante di tutti i torti subiti, pure lontani, magari vecchi di secoli, e alla necessità di presentare il loro conto anche a eredi o presunti eredi che non hanno colpa alcuna, di vendicarli indiscriminatamente, perpetuando così la catena di violenze e vendette, alimentando nuove tragedie”.

Libri immaginati. Immagino un libro da scrivere (uno dei libri che non scriverò) dal titolo Ritratti di intellettuali salentini, una galleria di personaggi che ruotano intorno a un giornale, a un salotto, a un progetto, a una parrocchia, entro le corti contemporanee (Comune, Provincia, Regione, per dirne alcune), intellettuali strettamente scolastici, strettamente universitari, scrittori assillati dal copyrigth, da un editore, direttore di rivista, ecc., tutti presi dall’ansia dell’ultimo libro da reclamizzare, zelanti gestori del proprio sito, del sito-io, con tanto di nome e cognome, perché nessun navigante possa ingannarsi, venditori di una merce che nessuno acquista. Sedicenti scrittori, poeti, artisti, cui una società disgregata sembra aver dato l’incarico della rappresentanza (compito che gli riesce bene), si aggirano nelle scuole, nelle università, nelle librerie, dovunque ci sia uno spazio per conferenze, con l’intenzione di dire, dire di sé, della propria opera, quello che mai non fu detto di alcuna. L’ego di queste persone è gigantesco. Sono dappertutto, questi intellettuali, in tutte le contrade d’Italia, ma nel Salento-sentina rifluiscono tutti per una ragione geografica, perché oltre il Salento c’è il mare e oltre non si può andare.  Molti si sono fermati qui o ci vengono periodicamente perché dicono di essersi innamorati di queste terre, che percorrono coi loro versi zoppi e con le loro prose sbilenche, intronando le orecchie degli indigeni coi prodotti d’un ingegno malato. Il Salento-sentina della nave-Italia rimesta, impasta, cucina soprattutto nelle calde sere d’agosto l’intellettuale-tipo: qualcuno che pubblica un libro all’anno pagando di tasca propria oppure lanciato da uno dei cento editori salentini, e va per paesi e per spiagge a venderlo come cerretano dei nuovi tempi: la fatica di scrivere, la fatica di vendere, di giorno in giorno, di mese in mese, di paese in paese: scrivere e vendere, vendere e scrivere, in un ciclo continuo che propaga il bla bla culturale delle presentazioni librarie.

Test. Ecco l’opinione di Raffaele Simone, Test. Non si uccide così un candidato? L’ultimo scandalo universitario, “La Repubblica” del 14 settembre 2007: “… si può davvero pensare che la pratica dei test sia sicura e onesta? No. Possono essere formulati male, possono essere compilati male da candidati, anche giudiziosi, che non si raccapezzano tra pretese strampalate, possono essere corretti male. La mia opinione di professore stagionato è che i test non servono affatto ad assicurare l’obiettività e efficienza, come si credeva negli anni Settanta. Servono solo a liberarsi di masse ingovernabili di candidati che nessuno ha voglia di incontrare faccia a faccia in colloqui articolati, e nascono da una sostanziale sfiducia nel potere della parola nell’ambiente educativo e formativo. Meglio un foglio pieno di crocette che una conversazione personale”.

Metodo genealogico. Scrive Umberto Galimberti, L’anima. Se la Chiesa impone la sua verità, “La Repubblica” di mercoledì 26 settembre 2007, pp. 52-53: “… il metodo “genealogico” di Nietzsche, il quale, a differenza di Platone, non si chiede ad esempio, “che cos’è l’anima”, ma: “Come è venuto al mondo questo concetto, che storia ha avuto, che significati ha assunto, che effetti di realtà ha prodotto?”, persuaso come sono che l’essenza di una cosa, il suo senso è nella storia”.

Il palombaro in Marcel Proust, Il tempo ritrovato, Einaudi, Torino, 1978, pp. 210-12 (trad. di Giorgio Caproni): “Quanto al libro interiore di tali segni sconosciuti (segni in rilievo, sembrava, che la mia attenzione, esplorando il subcosciente, cercava, urtava, contornava come un palombaro che scandagli), nessuno poteva aiutarmi con nessuna regola a decifrarlo: perché la sua lettura consiste in un atto di creazione in cui nessuno può sostituirci, e nemmeno collaborare con noi. Quanti si guardano perciò da una tale lettura!”.

E’ il momento in cui la lettura si trasforma in scrittura, quando non basta più leggere un libro, ma occorre leggere il proprio animo, non solo leggerlo ma “decifrarlo”. La decifrazione segna il passaggio dalla lettura alla scrittura, l’”atto della creazione” del solitario, che ha avuto il coraggio di guardare dentro di sé.

Sulla lettura. Raffaele La Capria, Cara Sofia…, “Corriere della Sera” di domenica 7 settembre 2008, p. 31 scrive: “Come vedi, cara Sofia, la mia lista è autobiografica, ma i libri indicati sono universali, e sono una buona base anche per te, e se li leggi il legame tra la mia e la tua generazione non si spezzerà, ed è un bene. Perché devi sapere che questo legame intellettuale tra noi e voi giovani si sta facendo sempre più tenue anche a causa delle diverse condizioni e forme di lettura che la globalizzazione ha creato. Se tu mi chiedessi una lista di libri da leggere tra quelli che oggi continuamente ci vengono proposti dall’editoria internazionale – e certo fra essi vi sono molti capolavori – io non saprei come soddisfare la tua richiesta.

Sono tanti i libri che ci arrivano, sono troppi  stavo per dire, e arrivano tutti insieme. La differenza tra il tempo in cui io leggevo i libri che ti ho segnalato e oggi è enorme, parlo non solo della differenza del leggere e scegliere i libri da leggere, ma del rapporto che da lettore si stabilisce con questi libri. Per esempio oggi quando tu entri in una libreria, cara Sofia, è diverso da quando ci entravo io ai miei tempi. Allora mi sembrava di entrare in una casa che mi apparteneva e dove amici-libri mi aspettavano. Oggi invece è come andare in un supermercato, in un non-luogo cioè. L’offerta è esorbitante, superiore a ogni possibile ricezione. Vedi montagne di libri, piccole catene montuose di libri levarsi dal pavimento, pile di libri, cumuli, ammucchiate, perché gli scaffali non bastano e la quantità esige i suoi spazi. Ci sono libri veri, quelli da leggere, e tanti altri, una moltitudine, superflui, effimeri, inutili, da non leggere. Entrare in una di queste librerie ed essere presi dallo sconcerto è la sensazione che più volte io ho provato. Non so tu.”

“…il legame tra la mia è la tua generazione…”, ecco essenza sociale della lettura, il collante intergenerazionale, che favorisce la comunicazione tra le diverse età della vita. Ogni generazione ha coltivato le sue proprie letture, magari scelte al di fuori della scuola o contro quelle imposte dalla scuola; ma sempre entro un orizzonte letterario finito e in qualche misura definito: il romanzo europeo dell’Ottocento e del Novecento, la poesia coeva, ecc. Oggi, invece, …. Mia esperienza diretta consistente nel non riuscire, neppure una volta, a indurre nelle mie figlie la lettura di un romanzo della nostra tradizione letteraria. I miei suggerimenti cadono tutti nel vuoto. Letture delle mie figlie:

Definizione di biopolitica in Pier Aldo Rovatti, Il gregge di Foucault, “La Repubblica” di lunedì 9 gennaio 2006, p. 31: “La biopolitica è il governo della popolazione come un insieme di individui che nascono e muoiono, hanno un sesso, esigono cure mediche, garanzie di sussistenza e di sicurezza a tutti i livelli del loro esistere”.

Massa e individuo. La massa di individui anonimi fa di un singolo individuo una star, dotandolo di nome (che può anche essere fittizio) ben preciso. L’individuo anonimo stringe una tacita alleanza con milioni di individui anonimi finalizzata alla propria individuale salvezza. Questa consiste nel dare finalmente un nome a chi è come lui, uguale a lui (la star potrebbe essere lui stesso, e questi non è una star solo perché non ha un nome, è anonimo). Di qui una certa fierezza dell’individuo anonimo, contento di osannare la star.

Cultura. Scrive Soeren Kierkegaard, Timore e tremore, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni Editore, Firenze 1972, p. 60: “… la cultura? …  il cursus che l’individuo percorre al fine di afferrare se stesso; e colui che non vuol percorrere questo cursus, gli giova ben poco l’essere nato nell’età la più illuminata.”

Aneddoti. Ottimo aneddoto appreso dalla bocca di un amico piuttosto attempato, che mi illustrava il carattere di un politico locale molto deciso e ambizioso. Per dire come questo politico non ami rischiare mai nulla, preferisca giocare sempre sul sicuro e sia anche un soggetto poco raccomandabile, l’amico mi racconta di quando, ancora in culla, il politico, piangendo e strillando a più non posso, era solito pretendere dalla madre ben tre ciucciotti, uno in bocca e gli altri due uno per mano, cosicché se gli fosse caduto di bocca il primo, avrebbe supplito con i ciucciotti di riserva.

Biopolitica. La Regione Lombardia intima ai suoi medici di non sospendere il trattamento per Eluana Englaro, in coma dal 1992. Commenta Eligio Resta, Un passo indietro, “Il Manifesto” di giovedì 4 settembre 2008, p. 1: “Appare quasi paradossale che sul “diritto alla vita” sia competente un potere amministrativo: la biopolitica è proprio questo.” La politica diventa pura e semplice amministrazione.

Biblioteche. La biblioteca è il cuore della vita cittadina. Ne parla Paolo Traniello, Biblioteche e società, Il Mulino, Bologna 2005, p. 171: “… al di là del carattere antico di libri e raccolte possedute, l‘istituto stesso della biblioteca, e della biblioteca pubblica in particolare, presenta un immediato ed evidente rapporto con la storia.

Ciò può apparire, ed appare con particolare chiarezza, nella realtà cittadina, della quale la biblioteca pubblica è stata e rimane primariamente espressione. Non solo l’edificio della biblioteca rappresenta nella sua materialità, antica o moderna, un preciso elemento di storia urbanistica, ma lo stesso rapporto fisico che il lettore deve instaurare con la biblioteca passa attraverso un contesto e un tessuto sociale storicamente caratterizzato, dove le strade e le piazze che si attraversano, le condizioni dei trasporti urbani, l’esistenza di altre istituzioni culturali, coagiscono tutte come elementi di un processo che conduce ultimamente al rapporto con il libro e a un comportamento di lettura entro uno spazio sociale attrezzato, che appare differenziabile dagli altri in un senso determinabile appunto dalla storia di quella società e di quell’ambiente cittadino.”

Massa e individuo. La nostra società è fatta di una moltitudine di individui intenti al soddisfacimento del proprio interesse personale e privato. Questa moltitudine è tenuta insieme da una comune volontà di autoaffermazione individuale. L’individuo che salvaguarda se stesso vive accanto a una moltitudine di individui che salvaguardano se stessi. Diciamo pure che la nostra società vive della complicità di una moltitudine di individui che si spalleggiano gli uni gli altri, si danno man forte perché ciascuno possa soddisfare il suo interesse, ma sempre spiando l’occasione di tradire il compagno di ventura, l’amico. Il termine società è una pura contradictio in terminis, perché non esiste cemento che possa tenerla unita, ma solo l’occasione, il calcolo delle opportunità, il cosiddetto dovere sociale, che diventa prima o poi ipocrisia e maldicenza, pettegolezzo e chiacchiera. Se l’interesse privato è l’unico bene da difendere, si dovrà difendere l’interesse altrui solo nella misura in cui e converso rimarrebbe del tutto ingiustificata la difesa del proprio. In questa logica, seguendo i medesimi comportamenti di ogni individuo, si inscrive l’azione dell’intellettuale.

Miserie della critica. Si scrive una recensione non perché il recensore vuol dire che cosa pensa del libro recensito, per dibattere un’idea, sostenere una tesi, avanzare un’ipotesi critica, ecc., ma per fare un favore all’autore, per dimostrare di essergli amico, perché un giorno l’autore contraccambi con una recensione favorevole quando per una normale metamorfosi il recensore attuale si sia cambiato in autore.

Libri immaginati. Nel libro immaginato dal titolo Ritratti di intellettuali salentini un posto sicuro avrebbe l’intellettuale che usa ancora il linguaggio degli –ismi, sollevando spesse cortine fumogene tra il lettore e il segreto della propria scrittura, che rimane tale anche al lettore che abbia una grande buona volontà. Questo intellettuale in realtà non vuole e non può comunicare alcunché e fa finta di trattare a parole chissà quale grande verità, quando invece tratta del nulla, il nulla del nulla.

Incominciare a scrivere. Roman Jakobson, Antropologi e linguisti, in Saggi di linguistica generale, Feltrinelli, Milano 1966, p. 12, scriveva che “la proprietà privata non esiste nel linguaggio: tutto è sociale”.

Essendo lo scrittore la personificazione del linguaggio, prenderei questo assunto per una distinzione tra veri e falsi scrittori. Ci sono infatti scrittori privati e scrittori sociali. Importa qui la motivazione della scrittura. Lo scrittore privato adopera la scrittura come sfogo personale, per voglia di apparire, per noia, difesa di una posizione, offesa di qualcuno; lo scrittore sociale interpreta una foga comune, mostra in ogni pagina la gioia della creazione, la volontà di scomparire in quanto persona fisica, lasciando indifesa ogni posizione, senza offendere nessuno. Lo sfogo personale può essere ricevuto dal familiare dal parente dall’amico, ma agli altri, a tutti gli altri, davvero non importa, non deve, non può importare. La foga comune dello scrittore, invece, si riflette nell’impetuoso, inarrestabile, irrefrenabile bisogno di leggere nelle sue pagine quanto ci riguarda, il nostro comune destino, la nostra vita. La noia dello scrittore privato, inoltre, rimane noia; nello scrittore sociale, invece, diventa “vita sentita, provata, conosciuta”, come scrive Leopardi nello Zibaldone, 4043: noia che si tramuta in gioia della creazione. Dalla noia alla gioia: questo è il cammino della vera scrittura.

Elogio del Trascrittore. Trascrivere, ovvero trasferire un pensiero, un’idea, una scrittura altrui sul proprio quaderno, mentre, nel frattempo, in noi tutto tace e solo la scrittura altrui risuona. La scrittura altrui ospite del nostro supporto, cartaceo o virtuale che sia, cui cediamo volontariamente il posto, non per sopperire alla nostra defaillance, al ritirarsi del nostro pensiero, ma perché esso è stato toccato dal pensiero altrui come le corde di una chitarra dalla mano dell’interprete-esecutore musicale. Trascrivere non è citare, poiché citare significa ricorrere ad altri scrittori perché convalidino o meno il nostro pensiero, stabilendo sempre la distanza da essi, prossimità o lontananza; trascrivere è un lasciar dire ad altri meglio di noi attraverso di noi, prevede l’assenza di ogni volontà, il congelamento di ogni soggettività narcisistica, il desiderio di scrivere oltre la propria scrittura. Trascrivere è un oltrepassare la scrittura, andare al di là del proprio segno, una pura perdita di noi stessi e un ritrovamento dell’altro. Trascrivere è un ritrovare la nostra scrittura dentro quella di una altro, in un modo particolare, non secondo le tecniche dell’appropriazione, ma quelle musicali della risonanza. Trascrivendo, noi risuoniamo, ovvero rimandiamo un suono nel quale appare concentrato il senso ultimo di ogni scrittura, la sua possibilità di sopravvivere alla distruzione del tempo, alla morte dello scrittore (si pensi all’opera impagabile degli amanuensi medievali).

Trascrivere come per salvare dal naufragio la testimonianza di una civiltà scomparsa.

Trascrivere è l’unico modo serio di leggere, poiché ogni frase, ogni parola, ogni lettera diventa soggetta alle stesse attenzioni di colui che la scrisse. Il trascrittore è l’unico uomo della Terra che renda il giusto onore allo scrittore.

Etica. Scrive Soeren Kierkegaard, Postille conclusive, in Opere, a cura di Cornelio Fabro, Sansoni Editore, Firenze 1972, p. 344: “… l’etica è … un fare che si rapporta a un sapere…”.

Lo straniero come rifugiato. Ne scrive Paul Ricoeur, Siamo tutti stranieri, “Corriere della Sera” di martedì 4 novembre 2008, p. 45: “L’attuale diritto dei rifugiati ha alle spalle la tradizione dell’asilo, a sua volta legata ad un’antica tradizione di ospitalità esercitata in favore dei fuggitivi che scappavano dalla giustizia vendicativa del Paese d’origine (…). … il rifugiato beneficia della protezione di un organismo internazionale, è su un Paese d’asilo – magari il nostro – che ricade la responsabilità prima dell’accoglienza. E’ a questo punto che la preoccupazione di proteggere i rifugiati entra, più o meno apertamente, in conflitto con la preoccupazione di proteggere la sovranità territoriale degli Stati d’accoglienza (…). La verità è che i Paesi industrializzati, nel loro insieme, tendono a costituirsi in fortezze contro i flussi migratori incontrollati scatenati dai disastri del secolo”.

Critica. Scrive Gaston Bachelard, Una psicologia del linguaggio letterario di Jean Paulhan, in Il diritto di sognare, Edizioni Dedalo, Bari, 1993, p. 160: “Il dovere di un critico consiste nell’essere uno stimolatore”.

Per una descrizione della diseguaglianza sociale. Scrive Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, 2010: “In un articolo su Newsweek, Emily Flynn Vencat e Ginanne Brownell  riferiscono come oggi <<il fenomeno del ‘per soli membri’ si sta espandendo fino a diventare un intero modus vivendi, includendo ogni cosa, dalle condizioni bancarie private alle cliniche sanitarie solo su invito (…) coloro che hanno i soldi stanno progressivamente rinchiudendo la loro intera vita dietro portoni sbarrati. Piuttosto che partecipare a grandi eventi mediatici, organizzano concerti privati, sfilate di moda ed esposizioni d’arte a casa propria. Vanno a fare shopping after-hours e la classe e la disponibilità economica  dei loro vicini (e potenziali amici) viene rigorosamente controllata.>>

Una nuova classe globale sta così emergendo “con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e un’isola privata ai Caraibi”. Il paradosso è che i membri di questa classe globale “cenano in privato, fanno shopping in privato, ogni cosa è privata, privata, privata”. Si stanno creando un ambiente vitale proprio per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay: “le famiglie ricche non possono “iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari”.

Allora, quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficienza (protezione dell’ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata – facendo trekking in Patagonia e nuotando nell’acqua trasparente dello loro isole private. Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell’atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri d’avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé (…). Questi “cittadini globali” che vivono in aree isolate, non rappresentano forse il vero opposto di coloro che vivono negli slum…? (…). La città che incarna meglio questa divisione è San Paolo, nel Brasile di Lula, che ospita 250 eliporti nell’area del suo centro città. Per isolarsi dal pericolo di mescolarsi alla gente ordinaria, il ricco di San Paolo preferisce usare gli elicotteri…”.

Scuola e noia. Marco Belpoliti, La noia, “La Stampa” di sabato 5 agosto 2000, p. 18, scrive: <<Fare esperienza della noia è indispensabile per maturare, in quanto nella noia si sperimentala propria finitudine. Un sentimento questo cui i ragazzi non vengono più educati, si preferisce sviluppare in loro il sogno di onnipotenza: tutto  è possibile. La scuola è disarmata davanti a modelli sociali, televisivi, sportivi, e oggi persino politici, che spronano a realizzare il sogno a occhi aperti di un desiderio che chiede sempre di più, che è infinitamente vorace. Nel passato la scuola educava alla noia, la stimolava, spesso involontariamente; l’educazione era un tempo sottratto al tempo “utile”, in cui s’imparava ad annoiarsi. In quella scuola, che adesso non c’è più, si poteva anche apprendere dai libri un’indispensabile massima di Leopardi: “La noia è il desiderio della felicità lasciato, per così dire, allo stato puro”>>.

Carcere e diseguaglianza. Luigi Ferrajoli risponde a Roberto Ciccarelli, In nome della paura. Intervista con il filosofo Luigi Ferrajoli, “Il Manifesto” di martedì 21 ottobre 2008, p. 13: “… in tutti i Paesi occidentali si è prodotta una vera esplosione delle carceri. In Italia, la popolazione carceraria è raddoppiata, arrivando a 50 mila persone detenute: negli Stati Uniti è addirittura decuplicata, 2 milioni di persone, senza contare i quattro milioni sottoposti alle misure della probation e della parole. Bisogna anche ricordare che in questo Paese il numero degli omicidi ha raggiunto quota 30 mila all’anno, dieci volte di più dell’Italia, nonostante le mafie e le camorre. Si tratta di una carcerazione di massa della povertà, generata da una degenerazione classista della giustizia penale, totalmente scollegata dai mutamenti della fenomenologia criminale, alimentata da un’ideologia dell’esclusione che criminalizza  i poveri, gli emarginati, i diversi come lo straniero, l’islamico, il clandestino, all’insegna di un’antropologia razzista della disuguaglianza. (…) E’ la duplicazione del diritto penale: un diritto mite per i ricchi e i potenti e un diritto massimo per i poveri e gli emarginati. (…) Oggi la giustizia è sostanzialmente impotente nei confronti della delinquenza dei colletti bianchi, mentre è severissima nei confronti della delinquenza di strada.”

A proposito della scrittura come proprietà privata. Citando Zumthor, Gabriele Frasca, Escotatz, mas no say que s’es, in “Alfabeta2” 25, dicembre 2012-gennaio 2013, scrive che “la letteratura <<ancor più dell’idea di Natura appartiene all’arsenale dei miti che la società borghese in espansione si è costruita a poco a poco, all’alba dei Tempi moderni>>. L’emergere del nome, e della cosa, coincide insomma con la fase in cui il capitalismo, grazie proprio al diffondersi del sistema letterario che se n’è fatto pellicola, scoprì l’inedita possibilità di estendere i propri mercati su ciò che per la specie è sempre stato di tutti e di nessuno: il linguaggio (…). La letteratura, pur depotenziata, continua a svolgere ancor oggi il compito che le fu assegnato in culla, quando ancora se ne stava avvinghiata al suo fragile gemello, il copyrigth, che avrebbe però avuto ben più fortuna di lei, estendendo il suo diritto di nascita su ogni campo di quella vaporosa schiuma tipografica che si definì libero pensiero (…). Il copyrigth, gemello della letteratura, fa dunque dei processi di pensiero innanzitutto un bene di classe, e dunque non solo quanto c’è di più domestico (economia), ma addirittura il quid stesso di tutto ciò che è privato (…). Per questo la letteratura non è un legame sociale ma una messa in (terzo) stato fantasmatica”.

Modernizzazione. Scrive Aldo Schiavone, Il futuro della sinistra, “La Repubblica” di sabato 23 agosto 2008, p. 29: “E’ in errore, e di molto, chi pensa che l’Italia di questi anni si sia “berlusconizzata” a causa delle televisioni o delle strategie mediatiche. A pensare così, si scambia la causa con l’effetto. Non è Berlusconi che ha ridotto l’Italia a somiglianza delle sue televisioni. E’ l’Italia “privatizzata” dall’ondata della modernizzazione che ha identificato in Berlusconi il suo principe naturale, il quale, dal canto suo non ha inventato niente: si è ritrovato in un gigantesco vuoto politico, reso possibile dal crollo democristiano e socialista e dal (politicamente) vergognoso ritardo del vecchio PCI, e ha percorso l’autostrada che gli si apriva davanti. Non ha creato nulla; ha solo seguito, interpretato. Ma lo ha fatto, non bisogna aver paura di dirlo, con imprevisto talento”.

Critica e memoria. La critica e la memoria delle cose passate non possono essere separate poiché sono le due facce della stessa medaglia, che è poi la conoscenza del mondo in cui viviamo, fatto in parte di uno status quo e in parte del passato da cui veniamo tutti. Ora è certo che chi non si accontenta del proprio status ed aspira ad un mondo migliore non può che cercare nel passato motivi ed idee che gli consentano di immaginarne uno. Quindi la critica, che si nutre del passato, trae da esso la sua ispirazione. La critica sociale presa a sé e priva di memoria è solo malcelata volontà di egemonia e di potere molto arrogante. Del resto anche la nostalgia, presa a sé e priva d’ogni tensione critica, è un sentimento piuttosto sterile, poiché si limita a rimpiangere il passato con spirito spesso moralistico, incapace di conoscere sia il passato sia il presente, e dunque anche di far avanzare il futuro.

La critica. Ricordarsi sempre della definizione data da Charles Baudelaire della critica: “… la critica deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti”. (Salon del 1846 I, in Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1992, p. 57).

Storiella. Un re si fece portare un elefante e chiese a un gruppo di ciechi a cosa somigliasse. Ciascuno di loro toccandone una parte diede una risposta diversa: chi toccò la zampa disse è come un palo, chi toccò l’orecchio disse è un tappeto, chi toccò la proboscide è come un serpente e chi toccò le zanne è come un aratro. Non ricordo più dove l’ho letta.

Il televisore. Quale magnifico strumento è il televisore! Le immagini più lontane si offrono come d’incanto alla nostra visione e noi improvvisamente ci troviamo nel grande mondo delle immagini, e facciamo esperienza visiva – e, in subordine, uditiva – di quanto non tocchiamo con mano né ricade sotto gli altri sensi.

Mia madre con noi bambini non è stata mai molto liberale in fatto di televisione. Le sue origini catto-contadine avevano sedimentato in lei il pregiudizio che nel tubo catodico si nascondesse il diavolo o qualche stregoneria, e dunque bisognava essere accorti all’uso che se ne faceva – soltanto molti anni dopo sarebbe stata stregata da Iva Zanicchi (che avesse vinto il diavolo?) -; inoltre, non voleva intralciare con inutili distrazioni le attività giornaliere della famiglia; fatto sta che il televisore in casa nostra si accendeva solo la sera, dopo i compiti della scuola, quando la stanchezza non consentiva altra attività che lo stare a vedere le immagini che scorrevano sul teleschermo. Anche mio padre, intento ai suoi studi, che protraeva fino all’ora di cena, non ha mai fatto un uso eccessivo del televisore. Ma la visione della partita di calcio era d’obbligo. Come si poteva rinunciare alla comodità di vedere una partita teletrasmessa dal “Meazza” o dall’ “Olimpico”, stando seduti in poltrona nella propria casa, mentre da giovani si erano fatti seicento, mille chilometri per vedere la Juventus, l’Inter ecc.? Insomma, il televisore permetteva con grande facilità un ritorno di giovinezza, a cui era difficile rinunciare. E poi c’erano i film, i film della giovinezza di mio padre, quelli con Rita Hayworth, Marlene Dietrich, Ava Gardner, Humphrey Bogart, Gary Cooper, John Wayne, ecc., che ora toccava a noi figli vedere dopo venti, trent’anni dalla loro prima apparizione. Carosello riuniva la pubblicità in una sola mezz’ora, dopodiché non c’erano altre pause, e il film si poteva vedere fino alla fine, senza alcuna “rottura dell’illusione scenica”. In ogni caso, nella casa dei miei genitori, il televisore era presente solo nella sala da pranzo, non in camera da letto.

Nella mia casa di oggi il televisore si trova quasi in tutte le stanze, eccetto che nei bagni e nello studio, sicché è difficilissimo sfuggire alle sue grinfie. Mia moglie, quando non è a lavoro, lo tiene acceso quasi sempre, un po’ meno le mie figlie che preferiscono il computer. Io stesso, pur conservando le mie abitudini, frutto dell’educazione impartitami da mia madre, e pur fermandomi spesso nel mio studio, intento a leggere, come faceva mio padre – ecco come rivivono in noi, che lo vogliamo o no, gli stili di vita dei nostri genitori -, non posso non sentire, e confesso che a volte mi metto anche ad origliare,  i dialoghi televisivi, le colonne sonore, ecc., che mi provengono dalle altre stanze della casa; sicché mi sono familiari le serie televisive come il Doctor House, Medici in prima linea, Don Matteo, Carabinieri, Il commissario Montalbano, ecc., finanche i cartoni di Dragonball e i Simpson, e le trasmissioni per ragazzi tipo Paso adelante e Smallville. Posso dire, dunque, che i programmi televisivi costituiscono il sottofondo rumoroso della mia giornata, poiché l’accompagnano almeno dalle due del pomeriggio fino a sera. In realtà, mi capita di essere fermo davanti alla TV solo un’ora, il tempo del pranzo e della cena, che trascorro in compagnia dei miei cari e … dei telegiornalisti; sicché, mentre mangio, ingurgito, oltre ai quotidiani aggiornamenti sulla crisi economica in atto, anche stupri, assassini, vendette trasversali e una carrettata di politici molto indigesti, tutte cose di cui farei volentieri a meno.

Ma se il televisore è uno strumento magnifico, come ho detto, per me il libro rimane il non plus ultra. Naturalmente, non sto parlando di qualunque libro – e Dio solo sa quanti ce ne siano degni del macero! -, che rimane per me un bene elettivo, come un amico, che può essere chiunque, sempre che noi lo eleggiamo come nostro amico. Il libro richiede, attraverso la vista, l’uso dell’immaginazione, che comprende tutti i sensi, sebbene su di un piano puramente fantasmatico. Chi l’ha detto che la realtà dei sensi sia più vera di quella della fantasia? Pertanto, forte di questa convinzione, trascorro le mie giornate con i libri, mentre nel sottofondo mi giungono dalle altre stanze suoni e rumori della televisione. Poi, a tarda sera, quando sono stanco ed ho voglia di stare insieme ai miei cari, vado in camera da letto, smetto i vestiti del giorno, indosso il pigiama e mi corico sotto le coperte, nel letto dove sono già mia moglie e le mie figlie, che guardano la TV, anche loro in pigiama. La TV si arroga il diritto di essere il nostro medium e di accompagnarci tutti nelle braccia del dio Sonno. Cominciamo a vedere un film in prima serata, ma già alla prima pubblicità Sofia si è addormentata, Giulia si è stufata e si è recata in camera sua per una breve navigazione virtuale notturna in internet, Ornella ed io siamo stanchi dopo un lungo giorno di lavoro e di televisione, e allora un’altra giornata è finita, il calduccio del letto fa il resto e… ronf, ronf,  buonanotte a tutti!

[2004]

Critica. Scrive Massimo Raffaeli, Il dubbio metodico in ambiente letterario, “Il Manifesto” di martedì 25 novembre 2008, p. 14: “… il fare esperienza di un testo equivale appunto a coglierne la natura dinamica, di campo magnetico e/o di palinsesto dove sempre si combinano ovvero configgono elementi di assoluta disparità…”.

Il format. Leggi l’articolo di Edmondo Berselli ne “La Repubblica” del 18 settembre 2008. Così lo riprende Stefano Bartezzaghi, Politically  correct, “La Repubblica” di giovedì 2 ottobre 2008, p. 47: “La  categoria dei format produttori di consenso, individuata recentemente da Edmondo Berselli… un consenso fondato su un apparente buon senso, divenuto opinione pubblica e cioè senso comune grazie ad alcuni semplici schemi. Lo schema è appunto il format: apparentemente serve ad organizzare l’esperienza, ma in realtà la precede e la costruisce”.

Il format e scuola. Dalla fine degli anni ottanta circa,  l’insegnante non è tenuto a scrivere il verbale di una seduta collegiale; egli deve soltanto compilare un modello di verbale preconfezionato dalla direzione. Così pure non si richiede più un giudizio scritto in calce ai compiti in classe, ma solo qualche crocetta sui parametri di valutazione prestampati.  Alcune delle poche occasioni di esercizio di scrittura per l’insegnante sono venuta meno, e con esse una buona porzione di libertà.

Crisi economica. La questione del debito appare piuttosto semplice. I ricchi prestano ai poveri consentendo loro di vivere dignitosamente, a volte al di sopra delle proprie possibilità. Ma l’indebitamento non può continuare all’infinito. Arriva il momento in cui il ricco, per non perdere quanto ha prestato, chiede che il debito venga saldato. Il ricco ha un’ottima arma: minaccia di sospendere i prestiti. O ripaghi il debito o non ti darò più nulla. Così il debitore non può che indebitarsi ulteriormente, e nel frattempo, essendo sempre più povero, abbassa il suo standard di vita, consuma meno e così facendo innesca la crisi. Come se ne esce? Non certo con un aumento dei debiti. Se ne esce solo annullando i debiti. Come ciò possa accadere, se in modo pacifico o attraverso qualche cataclisma sociale, allo stato dei fatti non è dato sapere.

Memoria. Timothi Garton Ash, Le leggi della memoria non censurino gli storici, “La Repubblica” del 19 ottobre 2008, p. 29: appello contro le leggi della memoria: “Appel de Blois”. Tra i primi firmatari Eric Hobsbawm, Jacques Le Goff e Heinrich August Winkler. Nell’appello si legge che in un paese libero “non spetta a nessuna autorità politica definire la verità storica e limitare la libertà degli storici con sanzioni penali”.

Sul lavoro. Ne parla Piero Bevilacqua, Il ventennio targato Berlusconi, “Il Manifesto” di venerdì 31 ottobre 2008, p. 12: “Pochi hanno pensato in prospettiva storica alla sorte subita dal lavoro in Italia negli ultimi venti anni. E sappiamo tutti quel che è accaduto. Il lavoro è stato frantumato in mille modalità contrattuali diverse, costretto a mansione rapidamente mutevoli,  di breve brevissima durata, regolato da orari imprecisati, remunerato con salari spesso di umiliante esiguità. La flessibilità: quanti peana da destra e da sinistra alla nuova formula magica che riduce la persona umana ad un accessorio variabile dell’impresa!

Certo, non è tutta responsabilità dei governi di centro-destra, anche il centro-sinistra ha fatto la sua parte. Certo, ci sono stati periodi di più dura miseria per i lavoratori italiani del Novecento. Certo, sotto il fascismo le condizioni di illibertà sindacale erano pesanti e incidevano sulla vita delle persone. Eppure, io sento di assumermi, come storico, la responsabilità di affermare che neppure sotto la dittatura fascista il lavoro umano in Italia ha conosciuto le forme di degradazione, precarietà, umiliazione patite nell’ultimo ventennio nella cornice di uno stato formalmente democratico”.

Lo sciame di Bauman. Zygmunt Bauman, Homo consumens. Lo sciame inquieto dei consumatori e la miseria degli esclusi, Erikson, Milano 2007, pp. 48-48, scrive: “Nella società dei consumi della modernità liquida, lo sciame tende a sostituire il gruppo con i suoi leader, le gerarchie e l’ordine di beccata. Lo sciame può fare a meno di tutti questi meccanismi e accorgimenti. Gli sciami non hanno bisogno di imparare l’arte della sopravvivenza. Essi si radunano e si disperdono a seconda dell’occasione, spinti da cause effimere e attratti da obiettivi mutevoli. Il potere di seduzione di obiettivi mutevoli è generalmente sufficiente a coordinare i loro movimenti rendendo superfluo ogni ordine dall’alto. In verità, gli sciami non hanno un “alto”, ma solo una direzione di fuga che in se stessa determina la posizione dei leader e dei seguaci per la durata di quella traiettoria, o almeno per una sua parte.

Gli sciami non sono squadre: non conoscono la divisione del lavoro. A differenza dei gruppi veri e propri non sono più dell’unità dello loro parti – sono particelle auto propellenti. Possiamo paragonarli alle immagini di Warhol: repliche di un originale assente o impossibile da rintracciare. Interpretando Durkheim, possiamo dire che abbiamo una solidarietà puramente meccanica: ogni elemento ripete singolarmente i movimenti degli altri dall’inizio alla fine (e nel caso dei consumatori, il lavoro così eseguito è quello del consumo).

In uno sciame non ci sono specialisti; nessuno ha particolari risorse o capacità da esercitare o da insegnare agli altri. Ogni elemento deve saper fare tutto il lavoro da solo. Nello sciame non c’è né scambio, né cooperazione, né complementarità, solo prossimità fisica e una generale direzione di movimento. Per gli umani, il conforto della vita dello sciame deriva dalla fede nei numeri, l’idea che la direzione del volo è giusta perché un così gran numero di persone la segue, e che di certo tutte queste persone non potrebbero essere ingannate. La sicurezza dello sciame è un efficace sostituto dell’autorità dei leader.

Gli sciami, a differenza dei gruppi, non conoscono eretici e ribelli, solo “disfattisti”, “pasticcioni” o “pecore nere”. Gli elementi che fuoriescono dal perimetro dello sciame sono semplicemente “perduti”, o si sono “smarriti”. Devono arrangiarsi per conto loro, anche se non potranno sopravvivere a lungo perché è difficile e rischioso trovare una meta realistica da soli, al di fuori dello sciame. .

Le società dei consumatori tendono verso la disgregazione dei gruppi a vantaggio della formazione degli sciami perché il consumo è un’attività solitaria (è perfino l’archetipo della solitudine) anche quando avviene in compagnia. Essa non stimola la formazione di legami durevoli, ma solo di legami che durano il tempo dell’atto di consumo. Questi legami possono mantener unito lo sciame per la durata del volo (cioè, fino al prossimo cambio di obiettivo), ma rimangono del tutto occasionali e superficiali; non hanno alcuna influenza sui movimenti futuri dello sciame e non proiettano alcuna luce sul passato dei suoi componenti”.

Critica letteraria. Dichiarazione di Starobinski raccolta da Nuccio Ordine, in Starobinski, “Corriere della Sera” di sabato 15 novembre 2008, p. 45: “Per prima cosa bisogna accogliere il testo così com’è e, soprattutto, saperlo ascoltare, perché un testo è una voce che ci parla. In lui c’è qualcosa di immediatamente ricevibile: il sistema delle immagini, dei ritmi, delle rime e la stessa materialità del linguaggio. Il testo ci interroga, ci domanda di rendergli giustizia riconoscendo la sua direzione, la tensione di fondo che lo anima. Si crea una sorta di va e vieni. Tra una ricezione generosa, accogliente, interrogativa e, successivamente, un’iniziativa che bisogna prendere poiché non possiamo accontentarci di essere passivamente l’eco del testo. Spetta al critico, insomma, avere un progetto e sapere dove vuole andare una volta che ha accolto il testo.  E, in questa fase, l’individuazione di un tema, di un motivo, di un’immagine può essere determinante per interrogare un’opera o una serie di opere”.

[2013]

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