Passeggiata a Rudiae

Eccoci in auto, alla volta di Rudiae. Seguendo la voce persuasiva del TOM TOM, in venti minuti siamo arrivati davanti ad una lunga recinzione, sotto un paio di cartelloni pubblicitari: in uno c’è scritto RUDIAE PARCO ARCHEOLOGICO, nell’altro QUI  FU RUDIAE  – FU QUESTA LA PATRIA DI ENNIO. Mi ritorna il mente il verso degli Annales di Quinto Ennio: nos sumus Romani qui fuimus ante Rudini, (siamo romani noi che un tempo fummo di Rudiae) e i suoi tria corda (osco, greco e latino), cose che si insegnano ai giovani liceali – almeno a quei pochi che studiano ancora il latino – per dire tutto l’orgoglio della grande e della piccola patria e la mescolanza linguistica e culturale (il melting pot) che caratterizzavano uno dei padri della letteratura latina.

Scendiamo dalla macchina parcheggiata sotto una ficaia profumatissima al bordo della strada che porta a San Pietro in Lama e interroghiamo una donna sui quaranta che avanza verso di noi in tenuta da jogging. La donna ci dice che conosce bene il luogo perché abita lì vicino e vede che da un po’ di tempo non scava più nessuno. Solo la domenica c’è qualche gruppo organizzato con guida che si aggira tra le tombe e le fondamenta delle case del Parco. La donna continua a fare dei saltelli vicino a noi e sembra scusarsi d’essere un po’ sudata: ha finito la sua corsa pomeridiana, dice che correndo si scarica dello stress accumulato sul posto di lavoro, perché il suo lavoro è sedentario e molto pervasivo. A sentire questo aggettivo io e Ornella intuiamo di avere a che fare con una collega di scuola, ed è proprio così, la donna ce lo conferma: insegna in una scuola di Lecce; e allora ci sembra di aver già familiarizzato con lei essendo uniti dalla stessa sorte lavorativa. Le diciamo che ci piacerebbe entrare all’interno della recinzione, vedere lo stato dei lavori, il cuore di Rudiae: l’anfiteatro.

“Venite con me”, dice la donna. Ci porta con sé velocemente, saltellando; noi allunghiamo il passo ma siamo sempre due metri dietro di lei. Passiamo davanti all’edificio un po’ kitsch dell’Istituto agrario e alle cancellate di alcune villette, a cui sono appesi grappoli di glicine e steli fioriti di buganvillea, costeggiando a destra il recinto del Parco. I lavori di scavo sono rimasti a metà, ma la costruzione d’ingresso è già finita e, a quanto deduco dalle erbe spuntate nelle commessure dei mattoni, già abbandonata. Un cartello informa il visitatore che quell’opera ha richiesto lo stanziamento di migliaia e migliaia di euro; un altro avverte che è in atto nella zona una SORVEGLIANZA ARMATA, a cura di una nota agenzia di security. Soldi e pistole: meglio stare attenti, dunque!  “Ma no, non preoccupatevi” – ci dice la collega – “vi mostro io il passaggio”.

Così andiamo oltre: a destra olivi secolari, a sinistra un largo seminativo punteggiato di margherite, papaveri e fiori azzurri di malva. Chissà cosa nasconderà il prato sotto quell’erba? Altre tombe, altre fondamenta di case non ancora scavate, se è vero che questa era una città di novanta, cento ettari, addirittura più grande di Lupiae!

Passano dei ragazzini che giocano a palla lungo la strada asfaltata. La collega ci mostra un muro a secco sgretolato, in un punto addirittura crollato: le pietre sembrano essersi disposte in modo da favorire l’accesso all’oliveto, entro il quale, sin dalla strada, si intravede il cuore di Rudiae, l’anfiteatro. Allora, decidiamo di entrare nella zona off-limits, all’ingresso della quale è piantato un cartellone chiarissimo: E’ SEVERAMENTE VIETATO L’INGRESSO AL CANTIERE AI NON ADDETTI AI LAVORI. Ma siccome i lavori sono interrotti…

Massi squadrati accumulati in un canto dell’oliveto, tracce di cingolati e di copertoni tra la terra rossa sono le tracce più evidenti dell’opera di scavo. Davanti a noi, ecco l’anfiteatro, disteso come un immenso scheletro riesumato a metà. L’altra metà giace sotto un metro, un metro e mezzo di terra rossa, e sembra aspettare rassegnata che l’uomo compia l’opera iniziata.

La donna in tuta a quel punto pensa di aver assolto alla sua missione di guida, ci saluta e va via, lasciandosi soli, dicendoci “in bocca al lupo!” per il nostro lavoro. “Crepi il lupo”, rispondiamo.

La gazza svolazza da un olivo all’altro sorvegliandoci dall’alto e ogni tanto emettendo il suo grido tra il fruscio del vento. Cantano anche altri uccelli e ogni tanto giunge il rombo di un’auto o di una moto che passa lungo la provinciale.

Io e Ornella ci sediamo sul bordo dell’’anfiteatro, su lastroni di pietra consunta che formano i gradoni sbrecciati delle scalinate. Poco distante vi è la recinzione di una villetta; si vedono mobili da giardino e un dondolo mosso dal vento. La partenza della nostra collega ci ha lasciati privi di parole.

Che cosa siamo venuti a fare noi due in un posto come questo?

Guardiamo tutto quel materiale smosso, tonnellate e tonnellate di terra rossa che i camion non hanno fatto in tempo a portare via prima che finissero i soldi, guardiamo e rimaniamo in silenzio: non sono stati i contadini a sovrapporre la terra alla città abbandonata per farne campi coltivabili, ma la morte dei corpi viventi nell’arco di duemila anni; tanto ci è voluto perché il seppellimento di un’intera città si compisse, la decomposizione producesse terra ferace, tutto quanto nasce e muore diventasse polvere grassa depositandosi anno dopo anno, senza un momento di pausa, spinta da una forza necessaria e invincibile. Lo spessore di terra rossa sopra ogni tomba, sopra le fondamenta delle case e le gradinate dell’anfiteatro è la vera distanza che ci separa dall’antico. Togliere la terra dal luogo in cui si è posata nel corso di venti secoli ci è sembrato allora un atto sacrilego, l’archeologia stessa una grande profanazione di una città morta. Dopo qualche minuto siamo tornati sui nostri passi. Ci siamo detti che, se anche i soldi sono finiti, altri se ne troveranno, forse sono stati già trovati, per continuare gli scavi e portare a termine il disseppellimento dell’anfiteatro e dell’intera Rudiae. Il sogno del professore un giorno si avvererà: portare da Lecce a Rudiae frotte di turisti, creare nuove opportunità di lavoro, incrementare l’economia del territorio. Che cosa si potrebbe obiettare a tutto questo? Nulla, proprio nulla. Ci siamo rimessi in macchina e, non sapendo cosa fare, siamo andati a Lecce, dalle parti di Porta Rudiae, per prendere un gelato e continuare la nostra passeggiata nella città dei viventi.

[Quel che posso dire, Edit Santoro, Galatina 2016, pp. 48-53]

Questa voce è stata pubblicata in Passeggiate di Gianluca Virgilio e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *