“A retu a Sant’Antoniu” ho abitato dai miei dieci ai quindici anni in una casa presa in affitto dai miei genitori; dopo varie ristrutturazioni che ne hanno deformato il profilo e resa quasi irriconoscibile, ora questa casa è adibita ad asilo comunale. Mentre Ornella notava che tutt’intorno non v’era neanche un cesto per le immondizie, ragion per cui esse erano sparse un po’ dappertutto, io sono stato assalito dai ricordi. Le ho detto che proprio lì dove noi eravamo seduti, nel centro della villa alberata, un tempo si apriva una grande cava, larga almeno due ettari e profonda trenta metri, una cava di tufo che a un certo punto, verso la fine degli anni cinquanta, fu dismessa e abbandonata perché il piano regolatore prevedeva l’estensione della città in quella direzione. Così, da quel momento, dovendo colmare quell’enorme buca, i passanti ci avevano buttato dentro di tutto come fosse una discarica: pneumatici, elettrodomestici guasti, mobili inservibili, ecc.; contemporaneamente, vedevi alcune persone aggirarsi nel fondo della cava alla ricerca di qualche pezzo usato che potesse ancora servire, come fanno anche oggi nelle discariche del Terzo mondo i poveracci senza altro lavoro. E mentre alcuni gettavano e altri prelevavano, noi ragazzi giocavamo lì intorno, sul bordo della voragine, tentando a volte la discesa dal versante meno scosceso. Che piacere far rotolare giù uno pneumatico e seguirlo con gli occhi per vedere se arrivava nel fondo, pieno d’acqua nel periodo delle piogge fino a diventare un piccolo lago, o lanciarvi delle pietre da qualche montagnola sul bordo della cava; e che piacere far rotolare un masso trascinato per molti metri a gran fatica, che cadendo giù provocava una piccola frana! o scendere noi stessi, scivolando sulla cappotta rovesciata di un’auto abbandonata – chi mai allora aveva sentito parlare di rottamazione, la parola magica del consumismo! – o su una lastra di plexiglas! e risalire poi, faticosamente, aggrappandoci agli arbusti che erano cresciuti sulla scarpata!
Poi il Sindaco era intervenuto con un’ordinanza comunale nella quale si vietava di usare la cava come una discarica e si imponeva di colmarla con materiali puliti, ecocompatibili, terra e rocce provenienti da scavi per le fondamenta delle numerose case che in quegli anni si andavano costruendo in città e nei paesi vicini. E così si fece, ma già lì sotto c’era di tutto e nessuno si curò di bonificare prima di coprire.
Ornella, cui raccontavo questa storia mentre ce ne stavamo seduti sulla panchina al centro della villa, ha solo due anni meno di me ed ha vissuto la sua infanzia ed adolescenza poco distante, in linea d’aria a non più di duecento metri dalla casa in cui abitavo io nei tempi di cui sto parlando. Eppure noi due allora non ci conoscevamo: i suoi giochi si erano svolti altrove, duecento metri più in là, appunto; lei non ricordava neppure l’esistenza di una cava e non conosceva la storia del suo riempimento. Suscita meraviglia pensare d’aver vissuto nella stessa città e di non avere la stessa memoria delle cose passate.
Fatto è che a partire dai primi anni settanta, giorno dopo giorno, arrivavano camion che scaricavano materiali di risulta lungo i margini della cava. I primi camionisti, per non far precipitare il camion nel burrone, depositavano i cumuli sul bordo, lasciando che solo una parte del carico precipitasse nel baratro con nostra grande soddisfazione -, i secondi erano del tutto impediti a scaricare dentro la cava e formavano monticelli di terra e pietre dietro quelli dei primi arrivati, e così via, finché il piazzale antistante la cava diventava simile al paesaggio all’Appennino dalle cento brulle colline, sulle quali noi saltavamo come scimmie alla ricerca di quarzi e silici che scintillavano come gemme qua e là tra le rocce, dandoci l’illusione di un’improvvisa ricchezza; prontamente smentita, quando, tornato a casa, mia sorella, a cui mostravo il mio tesoro racchiuso in una busta di plastica, mi diceva che quelle pietre preziose non valevano niente, meno che bigiotteria. Poi, ogni tre mesi, arrivava una motopala che gettava tutto dentro la voragine, in poche ore liberando il piazzale, che col passare dei mesi diventava sempre più ampio man mano che si restringeva la grande buca.
Nonostante l’ordinanza del Sindaco, tuttavia, a lungo la cava continuò ad essere usata come discarica dalla gente del posto che non sapeva come smaltire i propri rifiuti. Gli abitanti della case costruite a ridosso della cava per anni sversaroni nel terreno i liquami fino a formare dei cumuli di materiali maleodoranti che nereggiavano sotto ogni tubo di scarico. Sul versante opposto della cava, le donne del vicinato, che all’inizio di luglio facevano la salsa di pomodoro per l’inverno, attraversavano la strada ricinte di un grembiule da cucina e, piegate sotto il peso di enormi vasche di plastica, andavano a gettare sui cumuli di terra l’acqua sporca della semente spremuta dai pomodori; un piccolo accorgimento di economia domestica che ritardava il riempimento del pozzo nero di casa, che poi sarebbe costato troppo ripulirlo. A settembre, ecco il miracolo: i semi erano diventati piante e le piante avevano dato il frutto: dietro un mucchio di terra, fra macerie e rifiuti di ogni tipo, inopinatamente noi ragazzi scoprivamo grappoli di pomodori maturi, che facevamo a gara a raccogliere, sbrigandoci per il timore che da un momento all’altro arrivasse la motopala a spazzare via tutto quel ben di dio. Ognuno di noi ne riempiva una busta e la portava alla propria madre, fiero del guadagno di quel giorno. Mia madre: “Dove hai rubato quei pomodori?”. Dopo le mie rassicurazioni – io infatti non avevo rubato nulla, ma solo raccolto ciò che la natura aveva prodotto; mio padre mi avrebbe dato ragione dicendo che erano res nullius -, mia madre dapprima dubitava che non fossero contaminati da sostanze nocive, poi li odorava, li guardava da vicino toccandoli ad uno ad uno e trasferendoli dalle sue mani in una scodella, insomma, li trovava “sinciri e puliti”. Perché avrebbe dovuto buttarli via? Infine, si rasserenava ed anzi sembrava ben contenta di risparmiare qualcosa sulle spese future. Ero raggiante: non ero diventato ricco con le pietre “preziose”, ma almeno a cena avremmo mangiato una frisella coi pomodori che io avevo raccolto!
Quando poi la cava fu riempita e i rulli compressori passarono e ripassarono sopra per spianare e compattare la terra, allora i due quartieri di “ a retu lu carcere” e “a retu a sant’Antoniu”, sempre più popolosi, ebbero a disposizione uno spiazzo libero, grande quanto un campo di calcio. Rivedo la corsa disperata d’un gatto inseguito da un cane di grossa taglia che il padrone aveva liberato per vederlo correre su quel deserto di terra pressata, lo strazio delle carni, il ghigno del padrone…
Per qualche tempo, il circo di passaggio in città ebbe lì la sua sede. Poi si trovarono i soldi per piantare degli alberi – lecci, siliquastri e qualche palma a ventaglio – e farne un giardino pubblico con tanto di panchine e, al centro, come ho detto, un monumento dedicato al Bersagliere che avanza al suono della tromba. Ma si era già agli inizi degli anni ottanta, e la politica si incaricava di dirci anche con la toponomastica che cosa si doveva ricordare e che cosa dimenticare; e dunque si cominciò a dimenticare tutto quello che c’era lì sotto, preferendo ricordare le foibe e le loro vittime: Piazzale Vittime delle Foibe.
Dicevo queste cose a Ornella, mentre Billi tirava il guinzaglio preso dal fascino di una cagnolina che gli passava davanti al passo del padrone. Dei bambini giocavano con una palla a poca distanza da noi, alcune donne si raccontavano le loro storie sedute su una panchina sotto un leccio. Qualcuno di loro conosceva la storia di questo luogo? Nel dubbio, ho pensato che non avrei fatto male a raccontarla.
[Quel che posso dire, Edit Santoro 2016, pp. 41-47]