Passeggiate vecchie e nuove

Mia madre sorrideva di queste fantasticherie, lei che a quell’epoca aveva visto una porzione piuttosto piccola di mondo, non avendo mai avuto necessità di spingersi oltre il capoluogo di regione; sorrideva e, a mio padre, che le mostrava un vigneto disteso su un breve declivio de lu Cola Maria, trasfigurazione immaginifica d’un podere del Chianti, diceva di non distoglierla dalla guida, perché la strada era stretta, piena di buche e non asfaltata, poco più che una carrara, e bisognava stare molto attenti a non sbandare.

Come mai io sappia queste cose, apparirà chiaro al lettore che mi immagini piccolo piccolo, seduto con mia sorella sul sedile di dietro nella Cinquecento L targata LE 114045 – sembrerà strano, ma questa è l’unica targa che ancora ricordi, così come ricordo il primo numero telefonico di casa 62025 -, intento, più che a guardare il paesaggio della campagna salentina, che mi diceva ben poco, ad apprendere le mosse di mia madre al volante, mentre cambiava marcia, dalla seconda alla terza, e viceversa, come la strada richiedeva; e poi frizione e acceleratore, si preme l’una si lascia l’altro, e freno quando occorre. Così, mentre attraversavamo gli ameni paesaggi de lu Macacu o de lu Cola Turu o de lu Metallu, – ancora non invasi da una miriade di costruzioni – che a tratti, secondo mio padre, si tingevano di vaghe allusioni toscane o lombarde, imparavo a guidare l’automobile, memorizzando movimenti del cambio e del volante, intensità dell’accelerazione e modalità d’uso della frizione e del freno; e tutto questo all’età di dodici, tredici anni; sicché fu del tutto ingiustificato lo stupore di mia madre quando, un paio di anni dopo, vide che mi allontanavo guidando l’auto per un giro nei pressi di casa nostra, e ancor più quando, dopo qualche minuto, mi vide ritornare sano e salvo e senza essermi fatto male. Da una rapida ispezione risultò poi che la carrozzeria della Cinquecento L non aveva riportato neppure un graffio.

“Sti vagnuni de moi nascenu mparati”, diceva, senza considerare le molte lezioni di scuola-guida che lei stessa mi aveva impartito senza saperlo.

Quelle passeggiate erano richieste soprattutto da mio padre, che da ragazzo, tra la fine degli anni ’20 e i primi anni ’30, aveva villeggiato a lu Lardu, una contrada tra Galatina e Noha, dove la sua famiglia, dopo San Pietro, si trasferiva per seguire da vicino i lavori della campagna. Da lì partivano le sue scorribande verso i Paludi in compagnia degli amici, i cui nomi – Nello, Mario, Carlo, Emilia, Alberto,  e altri ancora – riaffioravano tra un ricordo e l’altro come presenze ancora vive; ed in effetti essi vivevano allora sparsi per il mondo, intenti ai loro affari -; e poi ancora lu Ninu e Fiume, nomi rispettivamente di un cavallo che tanto aveva faticato per la famiglia da meritare il nome d’uomo che gli era stato assegnato (memorabile il trasporto della pietra da Cursi a Galatina per la costruzione di una casa), e di un cane dannunziano e nazionalista (l’impresa di Fiume!) che per vent’anni aveva accompagnato le vicende della famiglia. I nomi portavano con sé ricordi vividi, i pomeriggi trascorsi da mio padre nella solitudine dei campi, disteso sotto un fico ombroso, con un libro di Guido da Verona avuto in prestito da un amico e tenuto nascosto alla vista dei parenti – non erano letture per adolescenti, quelle! -,  in attesa che passasse alto nel cielo un aeroplano del vicino aeroporto.

A mia madre, almeno le prime volte, queste passeggiate non dovevano dispiacere, perché scopriva una campagna diversa rispetto a quella della sua giovinezza trascorsa a Corigliano d’Otranto. Tra “li cozzi de Corianu”, dove il contadino a fatica riusciva a strappare alla roccia qualche fazzoletto di terra per le colture, e la campagna ubertosa dei Paduli, in cui si alternavano seminativi a orti e a frutteti, c’era una bella differenza! Qualche volta però era lei a prendere l’iniziativa e cambiava strada, in direzione di Corigliano. Allora, “li cozzi de Corianu” diventavano i giardini fioriti della sua giovinezza, popolati da numerose ninfette, le amiche-giovinette, leggere come i loro nomi evocanti esistenze, simili a quelle degli amici di mio padre, sparse per il mondo, irraggiungibili se non nel ricordo, e dunque sempre presenti nella mente di mia madre. Con la Teresa, la Pina, la Tina, sedute sopra un muretto nei pressi della casa colonica, a sera, alla fine dei lavori nei campi, mia madre aveva commentato il passaggio d’un giovane a bordo d’un carro o, meglio ancora, d’una rara automobile, sulla strada polverosa, che andava chissà dove, e chissà se sarebbe tornata… Incontrare qualcuna di loro tra le strade del paese – come talvolta ci accadde, quando andavamo a trovare i miei nonni -, trasfigurata dalle apparenze d’una ragazzina a quelle indotte dalla nuova condizione di donna sposata con figli in visita dai parenti, meglio ancora se con marito stipendiato e statale al seguito, proprio come mia madre, aveva in sé qualcosa di miracoloso e di incredibile, come deducevo facilmente dai molti abbracci e baci tra mia madre e l’amica ritrovata dopo tanti anni e dalle reiterate esclamazioni: “Oihména, oihimé! oihména, oihmé! oihména oihmé!”, che facevano ridere noi bambini, non abituati a questo tipo di reiterati suoni nasali.

Quando mia madre prendeva la strada di Corigliano, mio padre diceva: “Rita, ma dove ci stai portando, alli cozzi de Corianu?”. Per lui contava poco o nulla la Melelea, poche are di terra che gli avi di mia madre avevano sottratto alla roccia, e che mia madre ricordava come il giardino dell’Eden!

Così, ognuno difendendo la memoria personale e vedendo nei luoghi attraversati una parte irrecuperabile del proprio passato, passeggiavano i miei genitori per la varia campagna salentina, senza accordarsi nei ricordi, se non a partire dal momento fatidico del loro primo incontro. Passeggiate un po’ patetiche, si direbbe, se a unire i miei genitori non ci fosse stato il pensiero che il loro presente e futuro non si sarebbe realizzato in campagna, che apparteneva al passato, ma in città, con la costruzione della casa, cui dedicavano allora tutti i loro sforzi; passeggiate in cui ritrovavano ognuno la propria originaria solitudine, da dove erano usciti unendosi in matrimonio, e in cui di tanto in tanto rientravano volontariamente, forse per semplice nostalgia, o più verosimilmente col segreto proposito di segnare il passo, di misurare la distanza dalla posizione di partenza, di riprendere fiato, distraendosi per poche ore da un presente difficile, prima di tornare alla vita faticosa di ogni giorno, dove non c’era tempo per inutili rimpianti o per dar corso a vaghe fantasie nate dalla sovrapposizione e confusione, come in una visione onirica, di luoghi e tempi diversi; rimpianti e fantasie concessi, invece, solo la domenica pomeriggio di un giorno di sole, durante una passeggiata in campagna.

***

Col passare degli anni, mia madre, la guidatrice di casa – mio padre non volle mai saperne di imparare a guidare -, ha delegato a me il compito di accompagnare mio padre nelle solite passeggiate, preferendo utilizzare l’auto solo per le necessità della famiglia. Qualche volta veniva con noi, accomodandosi sul sedile posteriore, ma di solito rimaneva in casa, soprattutto quando si usciva la domenica mattina. Del resto, ci vuole qualcuno che badi ai fornelli, se si vuole avere il pranzo pronto alle tredici!

Gli anni sono trascorsi ancora, e i miei genitori, divenuti anziani, dapprima si sono ammalati, e a distanza di qualche anno l’uno dall’altro ci hanno abbandonato. Allora ho preso a uscire con le mie figlie ancora piccole, cui andavo mostrando le contrade che circondano l’abitato. In moto preferibilmente, ma anche in auto, dopo una pioggia autunnale o una domenica pomeriggio, imboccavamo una strada secondaria, e via, verso la campagna.

Le mie figlie non avevano mai visto prima la campagna salentina, avendo vissuto i primi anni della loro vita al Nord, dove i paesaggi sono del tutto diversi. Tornati dal Nord, questi luoghi, che mi erano stati così familiari durante la mia infanzia e adolescenza, in parte mi risultavano estranei, come quando si incontra un vecchio amico dopo molti anni: è sempre lui, certo, ma sarebbe ozioso limitarsi a parlare solo dei tempi andati, quando non si conosce la sua attuale situazione, che ci è del tutto sconosciuta. Queste cose le ho raccontate poi qualche anno fa in un libro dal titolo Vie traverse, e dunque le tralascio.

Le mie figlie ora si sono fatte grandi e hanno preso il volo: chi potrà mai raggiungere queste vite inquiete di adolescenti dai mille segreti, che viaggiano veloci a bordo dei loro scooter e, quando sono in casa, a bordo di milioni di byte, che le mettono in comunicazione, da un computer all’altro, anche a distanza di migliaia di chilometri, coi loro simili?

Così è accaduto che io e mia moglie ci siamo ritrovati soli a trascorrere il tempo libero che prima impiegavamo nelle cure che la generazione di mezzo di solito riserva ai più piccoli e agli anziani, con la segreta speranza d’essere un giorno ricambiata. Che fare, allora, se non una sana lenta rilassante passeggiata in campagna?

Io e Ornella, dunque, sia che ci spinga la forza dell’abitudine o un destino inscritto nei geni, rifacciamo in moto o in macchina gli stessi percorsi che facevano trent’anni fa mio padre e mia madre, quasi fossimo la loro reincarnazione. Mia moglie, in realtà, è affezionata alla campagna di Sirgole, dove suo padre novantaquattrenne fa coltivare un frutteto. Vi si recava sin da piccola, e si sa che ai ricordi tutti siamo legati per la vita. Passeggiando per quella contrada, dunque, soprattutto in primavera, ci è venuto il desiderio di vivere in campagna, tra gli alberi in fiore e il cinguettio degli uccelli. Forza dello stereotipo, che la realtà, per fortuna, si incarica sempre di smentire! Abbiamo fatto un’indagine di mercato, sia ricorrendo ad alcune agenzie immobiliari, sia interpellando i proprietari disposti a vendere, per sapere quanto avremmo speso per una casetta di poche stanze e con poche are di terra (a che serve la terra a chi non la sa coltivare?), bastevole a una famiglia come la nostra composta di quattro persone. Quante passeggiate fatte a questo scopo! Passeggiate deludenti e dalle quali, ogni volta, tornavamo a casa con l’amaro in bocca e piuttosto tristi. In compenso, abbiamo fatto degli incontri molti significativi ed istruttivi: un proprietario che per un rudere da abbattere chiedeva dieci anni del mio stipendio, un agente immobiliare che spacciava per un affare l’acquisto di una catapecchia, un contadino che, non potendo più coltivare la terra, intendeva ricavare dalla vendita della casa rurale e del campo una buona uscita degna di un amministratore delegato d’impresa, un tale che si era barricato dietro un’alta siepe di pino, solitamente usata dai contadini d’una volta come frangivento, per nascondere la notevolissima vista che si poteva godere dalla veranda della sua casa in campagna, di cui si voleva disfare, di un vasto impianto di pannelli fotovoltaici (oh, Sirgole, Sirgole, perché ti hanno scempiata!); un tale, che voleva venderci una casa sotto cui era stata scavata una cava e che rischiava di crollare da un momento all’altro; un talaltro, che vendeva, incluso nel prezzo, casa con traliccio di alta tensione svettante alto nell’orto; un proprietario, a cui facevo notare che la cifra richiesta mi sembrava un po’ troppo esosa, che mi ha risposto: “Che problema c’è: fate un mutuo e in trent’anni ve lo pagate in comode rate”.  E’ chiaro, no?

Ben presto abbiamo capito che neppure ce la potevamo permettere una casa in campagna, troppo costosa per i nostri stipendi di statali. Dicono che i prezzi siano alti a causa degli Inglesi che hanno colonizzato la campagna salentina, ma non so se sia vero o se invece i prezzi alti non dipendano dalla cupidigia dei proprietari locali. In ogni caso, noi abbiamo rinunciato alla casa in campagna e ci siamo messi il cuore in pace. Ma soprattutto abbiamo riconosciuto lo stereotipo, causa di tanti mali. Alberi in fiore e cinguettio di uccelli…: anche in città gli alberi fioriscono e gli uccelli sono forse più numerosi che in campagna, dove, ahimé, si vede solo volare la gazza!

Non si direbbe, ma anche la rinuncia ha il suo lato positivo. Da quando abbiamo abbandonato l’idea di vivere in campagna, le nostre passeggiate, private di uno scopo utilitaristico, hanno assunto un carattere più disteso e sereno, quale sempre la passeggiata dovrebbe avere. Per qualche tempo, passando nei pressi di un cancello su cui il proprietario aveva affisso il cartello VENDESI, io e Ornella ci sfottevamo a vicenda con dei botta e risposta, ognuno rilanciando la cifra: 150.000, 200.000, 250.000, 300.000, euro, s’intende, corrispondenti a quanto ci avevano richiesto i proprietari per la vendita della casa. Ora, non facciamo neppure più caso ai cartelli e proseguiamo per la nostra passeggiata parlando d’altro. In realtà, senza volerlo, ma avendone piena coscienza, si ripete nelle nostre passeggiate un rito antico che trasfigura il paesaggio e me lo restituisce in una forma familiare, sovrapponendosi alle brutture che gli uomini hanno disseminato in questa campagna – ne approfitto per denunciare chi ha sparso di pneumatici, che vi giacciono da anni e nessuno si cura di smaltire, la strada di Sirgole, dalla chiesetta alla periferia di Collepasso -. Immagino mio padre giovinetto tra gli alberi e le case o per la polverosa strada rurale, in compagnia dei suoi amici; oppure mia madre a sedici anni che spia dietro un muretto l’arrivo di qualcuno dalla città. Il paesaggio della campagna salentina diventa anche per me la trasfigurazione di un mondo che non ho avuto il tempo di conoscere, il mondo contadino d’una volta, declinante e morente, con le sue trasformazioni che altro non erano se non i diversi stadi di una lenta e progressiva decomposizione, nella quale trent’anni fa si innestavano, per ridargli surrettiziamente vita, le fantasie di mio padre e mia madre, i loro desideri di luoghi in cui non era stato loro concesso di vivere e da cui nolenti o volenti erano andati via, per ritornarvi saltuariamente e per puro diporto; come oggi si innestano le mie fantasie – che sia rimpianto o semplice nostalgia, poco importa – in un paesaggio devastato dalla speculazione edilizia e dalle immondizie che gli uomini fanno fatica a smaltire, e che stenta a conservare perfino il ricordo di storie come queste.

Ornella mi chiede di accompagnarla a Sirgole da suo padre, quando è in pensiero per lui, che ha il cellulare, ma se lo dimentica sempre da qualche parte e non lo usa. Così ci mettiamo in macchina e lo raggiungiamo nel suo podere. Alla sua età, per innaffiare le ruddhe, tira ancora il secchio pieno d’acqua dal pozzo – acqua freschissima, ma imbevibile a causa dei batteri fecali -, e si arrabbia se cerchi di aiutarlo, salvo poi la sera lamentare qualche dolore alla schiena. Mi guardo intorno e mi sembra di vedere i miei genitori, con due ragazzetti al seguito, che passano con la Cinquecento L una domenica pomeriggio verso i luoghi del ricordo, pieni di fantasticazioni, ma anche di una salda determinazione: avevano ben altro da fare che desiderare una casa in campagna, dovendo costruire quella in città.

Così, quando torno in città, e, fattasi notte, mi corico, chiudo gli occhi e mi metto ad ascoltare il vento che soffia e stormisce tra li alberi del vicino giardino. Sono alberi alti, da villa, alberi di bella vista, che ricreano in città l’atmosfera di una casa in campagna, e per questo ringrazio il mio vicino di casa per averli piantati. Mi dico che il vento proviene da una delle contrade intorno alla città, lu Vita, lu Pindaru, le Vore, li Paduli, li Chiani, l’AntisaniSanta Venerdia, a seconda della direzione da cui soffia, e ne porta la voce rassicurante. Porta le storie che ho raccontato, quelle che riguardano i miei familiari, ma chissà quante altre storie di tutti gli uomini che hanno frequentato in tempi diversi quei luoghi, storie intrecciate e connesse fra loro, nella cui inestricabile unità, che merita sempre nuovi racconti, consiste forse il fascino della campagna dove esse sono nate. Che provengano da lì e che lì ritornino sempre come a loro dimora, sono sicuro – ed è lì che tornerò a trovarle -, come sono sicuro che le mie passeggiate oggi non hanno altra motivazione che questa, di apprendere la loro voce e farne finalmente racconto.

[Così stanno le cose, Edit Santoro, Galatina 2014, pp. 17-30]

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