L’ Album di un’infanzia nel Salento di Antonio Prete

Ricordare, rammentare – dunque, nell’etimo: riportare al cuore e alla mente – la nostra infanzia significa, secondo Prete, «prestare parole» a un incontro fra due tempi, il passato e il presente. Ma il tempo dell’infanzia ha caratteristiche sue proprie, e si misura con lancette affatto differenti rispetto a quelle che adoperiamo nelle successive stagioni della vita.

Le immagini dell’infanzia sono infatti contemplate da una distanza che le insidia, le rende vaghe, permeabili, mutevoli. Fra le esperienze che hanno segnato l’infanzia e il ricordo che ne tracciamo da adulti v’è dunque una lontananza, direttamente proporzionale al tempo che è trascorso fra queste due età; e che agisce, secondo Prete, come un «grande, fluttuante, scomposto, ingovernabile operatore che muove tutti i gradi, lontani o vicini, del rapporto tra quelle immagini – figure, parole, scene quotidiane, luci delle strade, volti – e la linea trasparente e insieme lontana che chiamiamo realtà o persino verità».

Da qui la memorabile, delicata metafora attraverso la quale Prete si riferisce al ricordo che ricostruiamo, da adulti, del tempo della nostra innocenza, paragonato a un «aquilone di carta trasparente, che sale verso il cielo e si perde nella luce, portando con sé anche il filo che una mano stringeva, mentre correva lungo la riva».

C’è poi un altro elemento, nell’Album, su cui mi sembra opportuno soffermarsi. La catabasi di Prete nella sua infanzia, come accennato in apertura, non si sviluppa solo secondo una direttrice temporale, ma anche spaziale, più precisamente in quella porzione di Salento che ha come epicentro Copertino: le case che l’autore ha abitato, il cortile dei primi giochi, la piazza delle feste e dei comizi, il Castello, la strada fra gli ulivi che porta al mare.

Prete sa che lo spazio è un elemento decisivo almeno quanto il tempo. Perché anch’esso incide sulle persone, le plasma, agisce persino sul loro modo di esprimersi, di raccontare, di ricordare. La conformazione del territorio determina, cioè, una corrispondente «sintassi lirica» (così la definiva Salvatore Quasimodo) che si carica di una densità simbolica e di una potenzialità semantica direttamente proporzionali al patrimonio culturale che quel territorio esprime attraverso la sua storia, le sue tradizioni, la sua stessa morfologia. «L’immaginazione – scrive Prete – si mescolava alla rappresentazione geografica […], una geografia diventata lungo gli anni una sorta di interiore appartenenza. Un’appartenenza in qualche modo protettiva. La forma di una penisola – con la parte di terra che si congiunge con altre terre, in una contiguità non ben definita nei confini, e tutte le altre parti lambite e a volte penetrate dal mare, cioè da un elemento che è la cancellazione di quel confine – può avere avuto una sua funzione in quel teatro dell’interiorità in cui l’immaginazione si fa pensiero, e il pensiero tentativo di leggere le figure del mondo. Può avere agito nella distanza che avverto da ogni sacralizzazione del confine: sacralità che è fonte sanguinosa di conflitti».

È dunque a partire da questi presupposti che Prete ci guida nel Salento degli anni Quaranta che fu il teatro della sua infanzia; e che è, assieme, paesaggio fisico e interiore, un landscape immediatamente virato in mindscape, secondo l’efficace definizione che ne ha dato Vittorio Lingiardi. Ed ecco allora apparirci, fra le fotografie (vere o solo mentali) del suo Album di ricordi, un «Sud della povertà» e dell’affabulazione, della parola come rifugio dall’infuriare della Storia: la guerra, la Shoah, le emigrazioni dei compaesani, la lotta per le terre d’Arneo, la scomparsa della cultura contadina, tragicamente rappresentata dalla «necropoli vegetale» degli ulivi, un tempo floridi, oggi devastati dalla Xylella; ecco i volti degli affetti più cari: il padre falegname al lavoro nel suo labboratoriu, la madre che ammiriamo in una splendida foto riprodotta in appendice al libro («Il Sud che si rivela in quel volto è il Sud che mi precedeva e che per questo mi apparteneva nelle vene e nelle arterie»); ed ecco, poi, i volti dei compagni di scuola e di giochi, con il loro futuro ancora tutto da vivere; le casse armoniche, le processioni, le tarantate, il pazzo del paese, le donne velate; le prime letture; le prime esperienze del dolore, della morte, dell’amore.

Visitare il paesaggio dell’infanzia, scrive Prete, significa difendere «l’incantamento contro l’assuefazione, lo stupore contro l’abitudine». L’infanzia è un tempo che ancora vive in noi, e che per questo ancora ci appartiene: «del suo alfabeto è fatta la lingua degli anni. Alla sua musica attinge il suono dei giorni».

[“La Repubblica – Bari” del 30 novembre 2023]

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