di Gianluca Virgilio
Ci sono giorni in cui il sole non si vede, se non a sprazzi. Le nuvole passano veloci una dopo l’altra provenienti da sud-est e non lasciano il tempo all’immaginazione di figurarsi alcuna forma sensibile stampata nel cielo. Pare anzi che siano sconnesse e scontornate come pezzi d’un puzzle che nessuno saprebbe comporre. Portano carichi di umidità e sabbia del deserto che diffondono nell’aria fino a sporcare le strade e le auto in sosta, lasciando una patina di umor nero sulle case e nei giardini che vanno spogliandosi. Dalla Siria alla Libia attraverso il Golfo della Sirte hanno viaggiato nutrendosi di venti mediorientali e sahariani e di vapori marini, trasformandosi in ombre gigantesche, dense come corpi opachi, trattenendo dentro di sé polvere e pioggia e tutti i veleni degli uomini, per liberarne il cielo e scaricarli in terra, da qualche parte. Avanzano sicure, come fossero certe che nessuno può fermarle, annunciate sempre da qualche speaker televisivo che sembra con precisione divinarne l’arrivo; avanzano in ordine sparso, senza un disegno, un fine, a chiazze più o meno scure, portate da un vento caldo che sa di foglie marce e ricorda la morta estate in decomposizione.
Se anche te ne stai chiuso in casa, con le tapparelle abbassate, quel vago sentore di putredine ti raggiunge a dense folate che piegano i rami degli alberi, a volte fino a spezzarli, e urtano contro le case, ululando. Il vento della Siria non fischia come la tramontana, ma ha un suono più cupo che intimorisce e frastorna; non sferza, ma percuote con tutto il peso del suo carico gli oggetti consueti, scuotendoli, come un terremoto che metta in dubbio la nostra stessa esistenza. Anche se ti infili nel letto per sfuggirgli, ti raggiunge lo stesso: la coperta umida diventa pesante, il pigiama ti si appiccica alla pelle, la lana è insopportabile, il respiro affannoso, i movimenti del corpo impacciati…