Ho praticato uno sport (la boxe francese, o savate, molto popolare a Genova) e combattevo con un atleta che era, all’epoca, campione europeo. Ero il suo sacco da botte. Ce la mettevo tutta, ma non c’era niente da fare, era più bravo di me. Incassare calci e pugni faceva parte del gioco. Prima di darne bisogna imparare a prenderne: si impara l’umiltà.
All’università le cose cambiarono e mi capitò di essere avanti non dico a tutti, ma quasi. Vinsi il concorso da ricercatore, e poi quello da associato. Fui mandato a Lecce, dove non voleva andare nessuno. Non la presi come una condanna, mentre altri brigarono per “avvicinarsi a casa”. Il primo concorso a ordinario non andò bene. I vincitori erano più bravi di me e accettai la sconfitta. Il secondo lo vinsi. Mi presentai come direttore di Dipartimento, e come Presidente di Corso di Laurea: respinto. In compenso fui chiamato nell’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca e in altre commissioni di un certo rilievo, non solo in Italia. Come al solito qualcosa andò male e qualcosa andò bene. Risposi a molti bandi per finanziamenti, fallendo. I fallimenti mi aiutarono a capire dove sbagliavo, e le cose cambiarono.
Fui temprato al fallimento sia dal sistema sia dalla mia famiglia. In effetti, fino all’università, non ce la misi affatto tutta! Dopo sì. Ma sempre pronto ad accettare sconfitte. Nel mio campo, la biologia marina, diversi miei allievi sono migliori di me. Potrei viverlo come un non raggiungimento di eccellenza personale, ma l’ho trasformato in motivo di vanto. Chissà che vita avrei fatto se fossi stato promosso alla prima maturità.
Oggi non è più come “ai miei tempi”. Le famiglie difendono i loro rampolli e non accettano fallimenti. Di solito non si portano i “falliti” a scaricare quarti di bue, si dà la colpa al sistema, ai docenti, agli arbitri. Mai a figli e figlie. Se sono bocciati si ricorre al TAR. Il “sistema”, dal canto suo, si è adeguato: non si rimanda più, o quasi. Dopo l’ennesima riforma universitaria ci fu detto che se gli studenti vanno fuori corso per non aver superato tutti gli esami e terminata la tesi di laurea, la colpa è dei docenti: tutti devono superare gli esami e laurearsi per tempo. Se questo non succede i “falliti” non sono gli studenti, siamo noi docenti. Alé… tutti promossi. Magari modulando i voti da 18 a 30, mentre prima si era più esigenti. Vi fareste operare da un chirurgo che si è laureato con tutti 18? La vita non è così. Si può avere successo, ma si può anche fallire. Si può riuscire a realizzare i propri sogni, ma bisogna anche essere pronti a ridimensionare le proprie aspettative, adeguandole alle proprie capacità.
Quando i nodi vengono al pettine, e la vita comincia a presentare il conto, le frustrazioni sono intollerabili se non si è temprati al fallimento. Rendersi conto di non avere diritto a tutto quello a cui si aspira, magari perché non lo si merita, viene vissuto come un’ingiustizia.
Questo vale nello studio, ma anche nel lavoro e in amore. Essere respinti dalla persona che diceva di amarti, magari perché il tuo amore le è diventato insopportabile, fa parte del gioco della vita. Bisogna essere in due per amare (questo non vale per i figli). L’accettazione del fallimento richiede allenamento. Generare aspettative di successo garantito (a cominciare dal 18 politico dei miei tempi) produce, a volte, mostri, oppure falliti. L’articolo 1 della Costituzione degli Stati Uniti riconosce il diritto alla felicità. Da noi è il lavoro. Forse l’aspettativa di felicità, intesa come diritto al soddisfacimento delle proprie aspettative, genera mostri. Proteggere dalle frustrazioni del fallimento le persone che amiamo non le rende felici. Il segreto, per quel che mi riguarda, è fare tutto il possibile per ottenere il risultato sperato. Se si fallisce… si procede verso nuovi obiettivi: fallendo si impara.
[Il blog di Ferdinando Boero ne “Il Fatto Quotidiano” online del 23 novembre 2023]