Lo stato d’animo di chi legge questo libro può essere paragonato a quello di chi, ospite in casa di un amico, ha il piacere, in sua compagnia, di sfogliare l’album fotografico della sua famiglia mentre lui indica persone sconosciute e descrive situazioni che sono state parte importante della sua vita di bambino: la famiglia della madre e del padre, innanzitutto, e poi mille altre figure del mondo contadino e artigiano del tipico paese del Sud in un’epoca di grande povertà e di grandi speranze: una “vecchia che si trascina nella luce lungo i muri”, “un uomo non più giovane, chiuso in una giacca stretta e scura…[chiamato] Peppinu lu pacciu, Peppino il pazzo”, un “ubriaco, detto lu Brindisinu” (pp. 36-37), sono solo alcune di queste numerose figure che ritornano nella mente dello scrittore e rinnovano in lui sentimenti e pensieri del fanciullo, che ora egli riaccoglie nella memoria attuale. È l’”immagine fanciullesca”, come vuole Leopardi, che ritorna sempre nell’ora presente e fa dire all’autore che “l’infanzia è il ricordo dell’infanzia.” (p. 50)
Vero è che il ricordo non è mai preciso né si forma a partire solo dalla memoria individuale: “Le immagini che vengono da quel tempo”, scrive Prete, “non hanno contorni nitidi, sono sulla linea opaca dove la memoria si definisce partecipando di quello che altri raccontano di noi.” (p. 44) Il ricordo individuale è pervaso dal racconto degli altri, amici e familiari, la nostra memoria è anche la memoria degli altri, a cui non possiamo non prestare fede, pena il venir meno del ricordo stesso. Un’opera come questa, dunque, può anche essere interpretata come un libro di memoria collettiva, di un’intera comunità nella quale visse Prete fanciullo. Copertino con le sue feste patronali, coi suoi riti, le sue processioni, i comizi del dopoguerra, la vita che riprende e si fa alacre, ma anche e, direi, soprattutto, Copertino alle prese col problema dell’emigrazione, del distacco dai propri cari, della lontananza, della nostalgia. Dietro il racconto dell’infanzia l’Album cela il racconto di un’intera vita che Prete, come mille altre persone della sua generazione e delle generazioni seguenti, ha trascorso in paesi e città lontane; e ancora narra una storia di sradicamento e di conseguente e necessaria elaborazione delle strategie di adattamento a nuove situazioni; che, con ogni evidenza, nella vita di uno scrittore e di un poeta si trasforma nella costruzione della propria opera. Probabilmente, se Prete non avesse avuto alle spalle questa storia, non avrebbe scritto Nostalgia e neppure il Trattato della lontananza, non si sarebbe occupato di traduzione e neppure avrebbe indagato la grammatica dell’interiorità e le dinamiche della compassione e dell’amore. La sua poesia e la sua poetica, contenuta in tutte le sue opere, narrative, teoriche, critiche e poetiche, non sarebbe nata.
È la medesima storia che ora lo ha spinto a riunire in un Album le immagini della sua infanzia e a rinvenirne il senso nel tempo presente: “Il paesaggio che ho davanti [il paesaggio senese] mentre scrivo queste righe è cornice a quelle immagini che vengono da lontano.” (p. 129) E ancora: “La lontananza del paesaggio dell’infanzia è grande, e tuttavia dinanzi a questa vista esteriore e fantasticata, e forse in segreto accordo con essa, che l’occhio interiore scorge il paesaggio lontano dell’infanzia” (p. 130): Tutto è sempre ora, potremmo dire, utilizzando il titolo di uno dei suoi libri di poesia. Il ricordo nasce in un altro tempo, necessariamente posteriore, ma anche in un altro luogo, in questo caso entro il paesaggio senese, così diverso da quello salentino. Ma il potere evocativo della scrittura supera tempo e luogo e la potenza dell’analogia rende il ricordo vivido e presente. Nessuna meraviglia, dunque, se le strade di Harlem nella memoria si fondono con quelle salentine, i tratturi della campagna copertinese con i sentieri della Schwarzwald, ecc. (Sovrapposizioni, pp. 133-135). La memoria vive di questi accostamenti analogici, perché l’infanzia non può essere intesa né “come una premessa né come un primo tempo, ma come un’anteriorità che è sorgente, principio: del suo alfabeto è fatta la lingua degli anni.” (p. 135)
Così intesa, l’infanzia di Antonio Prete non è mai finita e di essa si può leggere non solo in questo Album, ma in tutta la sua opera.