In numerosi libri di Antonio Prete, soprattutto in quelli più legati all’invenzione narrativa, era già apparso il Salento, terra amatissima e capace di nutrire sentimenti e idee; ora l’esplicitazione di un’origine sia personale che collettiva si è fatta totale. Scrivo questo perché in Album di un’infanzia nel Salento,che inizia (un po’ come La lingua salvata di Canetti) col ricordo più remoto e che è legato alla corsa notturna mano nella mano con la madre verso un rifugio antiareo in campagna, la storia narrata non è solo individuale, ma coinvolge (sempre) tutta una comunità costituita innanzitutto dai genitori, poi dai nonni, dagli altri parenti, dagli amici, dai conoscenti e dall’intero paese – se mi è lecito rubare il concetto a Vito Teti, direi che la restanza in questo libro di Antonio Prete si esplicita proprio nella scrittura e nella lingua (italiana, certo, e bellissima, ma, come già osservato, trapunta di numerosi termini salentini e comunque volta a restituire una salentinità del sentimento e della percezione, del ricordo e dell’immaginare); anche Antonio Prete, come tantissimi di noi Salentini, ha lasciato la propria terra d’origine trovando altrove una nuova casa e nuove relazioni, ma il legame non è mai venuto meno e restanza può essere anche questo tornare con la memoria e con la scrittura agli anni che determinano l’identità personale e che s’imprimono nell’animo con forza indiscutibile, benché uno dei più insistiti motivi conduttori dell’opera sia il chiedersi quanto l’infanzia evocata non abbia di immaginazione, di situazioni “ricordate” in quanto sentite raccontare, quanto concreta e non aleatoria possa essere la memoria di un’infanzia – infatti «solo la lingua cercava di salvare dalla dispersione in fantasma inafferrabile» (p. 67) quanto il tempo (altro motivo conduttore fondamentale) disperde, cancella, mette in dubbio.
Album di un’infanzia nel Salento diventa allora un’affabulazione che, debitrice delle affabulatrici e degli affabulatori (p. 69) ascoltati da bambino, racconta di una regione mediterranea dove da sempre il raccontare ha significato il formarsi di un’identità, il trasformare in cultura suoni e paesaggi, cicli stagionali e un lavoro spesso duro e ingrato – e Album è, anche, una riflessione sul narrare, sulle trame segrete o sottili che s’intessono tra invenzione linguistica e storia personale, tra suggestioni dei luoghi, dei tempi e degli accadimenti e racconto, una meditazione sulle diverse soglie che, ardue da identificare, segnano il passaggio da un’età all’altra della vita.
«Il Sud della mia infanzia è il Sud della povertà. E, nel cuore della povertà, il Sud delle favolerie. Un Sud che aveva un suo proprio sapore del vivere e del dire. Un suo proprio umore del fantasticare e dell’affabulare.
Il Sud era coro assiduo di voci e di presenze. Nella luce della strada» (p. 23).
Non, dunque, il «Sud delle questioni di principio» di un memorabile verso bodiniano, ma il Sud dei canti popolari, dei cunti e della vita comunitaria – non è un caso, mi vien fatto di pensare, che la casa a corte salentina è la realizzazione spaziale, abitativa e funzionale di uno stare insieme che ha nel griko ghetonìa (vicinato) il vocabolo solenne e preciso che esprime questo stare “nella luce della strada” e che in Album i solenni pasti in comune, le feste nelle piazze e nelle strade scintillanti di archi di luminara e di casse armoniche, di bancarelle, i balli, i giochi tra bambini accendano pagine venate forse di un po’ di nostalgia, ma sempre gioiose e colme di vita.
«Se vado con il pensiero alle strade di quella lontana pianura, e cerco di incontrare il bambino che sono stato, il primo suo sentimento che mi pare di sorprendere è quello di una bianca, sconfinata attesa» (p. 31).
Ma è, questa, l’infanzia guardata dopo l’infanzia, il bambino mentre vive la propria infanzia non è consapevole né di essa né del futuro – e un aspetto molto interessante dell’Album, una delle sue tramature più profonde, è proprio la riflessione sulla distanza dall’infanzia, sul fatto che la mente la ricrei con un andamento sospeso tra quello che realmente l’infanzia è stata e il molto che essa è divenuta ma per tramite del ricordo, dell’immaginazione, del sentire, della lontananza temporale e spaziale; infatti «La lontananza è la trama nascosta del visibile» (p. 32) e «L’infanzia è il ricordo dell’infanzia. Per questo prossima al simulacro, intessuta di parvenze, e però leggera.
Aquilone di carta trasparente, che sale verso il cielo e si perde nella luce, portando con sé anche il filo che una mano stringeva, mentre correva lungo la riva» (p. 50).
In ogni caso, reali o immaginati che possano essere, i vari episodi s’incidono in profondità, determinano un cammino esistenziale, affondano le loro radici negli anni angosciosi della guerra, ma anche negli anni successivi delle lotte contadine per la terra e in quel cammino strettamente individuale che porta l’in-fante dal non saper parlare a scoprire, sempre nella lingua (nelle lingue), il mondo – per esempio:
«La lingua degli altri: mi accadeva, tra i banchi della festa, dinanzi alle giostre o dentro il piccolo circo di passaggio, di sentire lingue diverse e modi diversi di pronunciare le stesse parole. Dietro ogni lingua, una terra. Un mondo di suoni. Tornavo a casa e risentivo frusciare quei suoni nell’orecchio: una musica che era al di là delle parole e allo stesso tempo dentro le parole, una musica che era la lontananza delle cose, e dei paesi» (p. 53).
E poi c’è l’azzurrità dei cieli e dei mari salentini, non quelli oggigiorno svenduti a un turismo predatorio e massificato (oltre che ulteriormente massificante, privo di progetti e di prospettive anche culturali), ma l’azzurrità dentro cui respira il corpo riconoscendosi vivo:
«La duna e l’azzurro: la forma salentina del paradiso infantile» (p. 58)
in angosciata contrapposizione a un’altra realtà del Salento di oggi (e che i turisti non vedono o non vogliono vedere – ma c’è anche da chiedersi se il turismo massificato riesca a vedere qualcosa dei luoghi che “visita”):
«Scheletri abbruniti, tronchi schiomati e ramaglie intricate prive di fogliame, nugoli di sarmenti ravvolti su se stessi o cascanti verso la terra rossa che pare anch’essa sepolta sotto strami impolverati e sotto il pietrisco.
La morte degli ulivi sembra la gelida replica al compianto per la fine della cultura contadina: difatti è la scomparsa di quella cultura contadina, dei suoi legami profondi con il ritmo delle stagioni e con le forme e i tempi e i segnali e le voci della natura, che ha generato l’addensarsi di cause all’origine di quel disastro. Distruzione, nata dall’alleanza degli inquinanti chimici con la Xylella e altri batteri, e aggravata dal rinvio di ogni soccorso. La cancellazione di un paesaggio ha coinciso con la rovina di un’economia agricola. […] La morte di un paesaggio è un vento osservato solo nella superficie del suo apparire, non nelle sue umane e vitali ramificazioni» (p. 63).
Tuttavia il Salento evocato da Antonio Prete è quello ancora vivo nella voce della madre (e anche di tutti coloro che, in famiglia, possedevano quest’inclinazione all’affabulazione) – «Ma la voce, nel ricordo, è come staccata dalle storie, divenuta insieme forma del dire e suo contenuto» (p. 70). È tenace il legame con la madre, niente affatto morboso, ma materiato di un amore dolcissimo e inestinguibile; è vero il lemma “lingua madre”, se per lingua s’intendono sia il dialetto sia tutto quello che in dialetto viene detto, raccontato, ricordato, se la lingua della madre è la manifestazione sonora e concettuale del legame con la propria origine biologica e intellettuale; certo verrà poi, soprattutto a scuola, l’apprendimento della lingua italiana che, accostandosi al dialetto copertinese, sarà l’altro, inesausto amore e poi verranno il francese (la lingua della conversazione e dello studio con un maestro e amico evocato anche in questo libro, Edmond Jabès, ma anche la lingua di Baudelaire e di Char), verranno ancora altre lingue (per niente ultimi il greco e il latino, ovvviamente) nelle quali leggere testi di poeti e scrittori amati.
Scrive Leopardi nello Zibaldone (15 settembre 1821): «Certo e notabilissimo si è che tutte le parole di qualunque origine e genere sieno, alle quali noi siamo abituati da fanciulli ci destano sempre una folla d’idee concomitanti, derivate dalla vivacità delle impressioni che accompagnavano quelle parole in quell’età, e dalla fecondità dell’immaginazione fanciullesca; i cui effetti, e le cui concezioni si legano a dette parole in modo che durano più o meno vive e numerose, ma per tutta la vita».
«La lingua delle voci, di tutte le voci che erano intorno, era il dialetto del paese. Suoni che giungevano da lontano – avrei appreso dopo – fondendo nella pronuncia echi sonori di idiomi diversi, greci, messapici, latini, arabi. Più frequenti le cotaminazioni con i suoni e il lessico dei contigui paesi della Grecìa. […] la lingua dell’ascolto era il dialetto. Un dialetto nel quale lingue diverse si erano come depositate e trasformate, e che nella pronuncia aveva toni sibilanti e fruscianti che mi piacevano, con l’addensarsi di sillabe dolci e di suoni che – l’avrei inteso dopo – stemperavano la sonorità delle dentali nelle cacuminali, facendo retroflettere la lingua sul palato, con cadenze che erano musica, e i verbi che dilatavano l’azione (anche di questo sarei stato consapevole dopo): non che cosa fai, ma ccé sta’ faci, non ce ne andiamo, ma ‘nni li sta sciamu. E c’erano soprattutto quelle indicazioni dell’altrove, che mi parevano insistenti nel parlare: a ddha mera, a ddha sotta, a ddha fore, da quella parte (avrei saputo, poi, che mera era greco), laggiù, là fuori. Ddha mera: la linea dell’orizzonte, la linea del mare, l’altrove della lontananza» (pp. 110, 111, 112 passim).
Album di un’infanzia nel Salento rende omaggio «alla presenza della lingua, della lingua dialettale, al potere che la lingua, con i suoi toni, le sue interiezioni, il suo raccontare, ha sull’immaginazione e sui pensieri» (p. 100) e la lingua (poetica per la forza del ποιεῖν che le è consustanziale) permette la tramatura dei ricordi, l’invenzione fantastica, traccia i sentieri dell’immaginare.
E c’è un’altra voce che si fa udire tramite le arie d’opera preferite, l’allegria di chi ama stare in compagnia e l’altra allegria, quella solerte del lavoro manuale e dei suoi strumenti: è quella del padre falegname e il legno coi suoi profumi e colori illumina una delle molte, belle pagine di questo libro.
Se si pensa al Salento si pensa anche al tarantolismo:
«Quando, già studente a Milano, lessi La terra del rimorso di Ernesto De Martino e della sua équipe, confrontai quelle ricerche e interpretazioni del tarantolismo salentino con i miei ricordi: scorci di scene e immagini conservate fin dall’infanzia trovavano una loro tessitura, una loro spiegazione antropologica e psichica; ma non ero colpito tanto dal percorso ritmico e magico che conduceva alla guarigione, quanto dal rapporto di un corpo con la musica. Era il ballo della ragazza, erano i volti e i gesti dei musicanti che nell’infanzia mi avevano coinvolto: in qualche modo tutti noi bambini che assistevamo al ballo eravamo stati toccati, se non morsi, dalla taranta, e tutti dovevamo liberarcene» (p. 75).
Il morso che rimorde è quello di chi appartiene a una comunità, il ballo liberatorio è dell’intera comunità, anche i bambini che assistevano al rito apprendevano, senza saperlo, a vedere il mondo attraverso un morso di dolore e di angoscia, senza dubbio, ma che anche conduceva alla partecipazione e alla solidarietà, alla condivisione. Senza stupidi sciovinismi (che sarebbero immotivati e sterili) si potrebbe dire che l’identità salentina si forma attraverso un inconsapevole apprendistato di atti, conoscenze, gesti spesso minimi, ma densi di significato; anch’io ho avuto l’impagabile fortuna di avere un nonno contadino cui ero molto legato ed è stato lui, con la sua semplicità concreta e immediata, pur semianalfabeta, ma ai miei occhi ancora oggi sapiente e nobile, a insegnarmi molti tratti di Sallentinitas – leggo nell’Album:
«È nell’abbaglio mattutino di questa campagna che rivedo la figura del nonno ‘Ntunucciu. Mi porge un fico già sbucciato, e mi insegna il suo nome, ogni giorno mi fa sentire fichi diversi, alcuni avuti in dono da contadini e massari, ogni fico un suo nome: un elenco non breve, ogni voce mi accade ancora di associarla a una forma, a un colore della buccia, a un colore della polpa, sanguigno, o giallo, o bianco, a un suo sapore, con i grani che si sciolgono in bocca lasciando un senso di freschezza misto a dolcezza» (p. 95) – conosco anch’io i nomi di molti fichi e ne ricordo colori e incisioni della buccia, il sapore della polpa e ricordo la pompa da spalla con cui mio nonno (si chiamava anche lui Antonio) irrorava le viti col verderame, la bicicletta con cui si recava in campagna, i nomi delle diverse uve che coltivava e vendemmiava sia nei suoi due piccolissimi appezzamenti, sia a mezzadria. Quando scrivo in qualche modo ripercorro sempre gli spazi tra i filari di vigne, mi affaccio, tenuto in braccio da lui, su un’alta, ampia vasca cilindrica piena di verderame azzurrognolo (invero non ricordo l’episodio, ma lo vedo in una fotografia), lo sento raccontarmi della sua prigionia in Germania, del suo ritorno, a piedi, verso casa…
La scrittura diviene libro, ma è quest’ultimo a essere all’origine della passione per la lettura e, appunto, per la scrittura; sottolinea Antonio Prete ricordando le sue primissime letture:
«Il libro, dopo quelle prime esperienze da lettore, non sarebbe stato più un oggetto tra altri, ma una presenza assidua. Quasi un prolungamento del corpo. Una meravigliosa necessità» (p. 106).
In questo libro che si chiama Album di un’infanzia nel Salento converge non solo la metafora della raccolta di foto (molte pagine sono organizzate in testi brevi che sono vere e proprie immagini create con le parole, altre s’ispirano direttamente alle – poche – fotografie dell’infanzia), ma pure l’esplicita passione dell’autore per la fotografia, coltivata anche nelle sue fasi di scatto, sviluppo e stampa fin dagli anni milanesi e ancor più, direi, la sua passione per lo sguardo il quale è guardare con gli occhi, sì, ma anche con la mente e con le emozioni, fare della scrittura la pellicola sottilissima e trasparente, ricca delle innumerevoli modulazioni del bianco e del nero, che tenta di cogliere l’essenza del nostro io adulto perché
«siamo fatti ancora d’infanzia. E allo stesso tempo siamo in esilio dall’infanzia, dal suo profumato giardino. […] I poeti sanno bene quanto la lingua del loro dire deve alla luce, e alle ombre, che appartengono a quel giardino. […] E la poesia è, della vita, non la sua metafora, ma la sua intensiva e trasognata rappresentazione» (pp. 128 e 129 passim).
«Dire dell’infanzia è tenere a bada le immagini, le voci, le situazioni che appartengono a un tempo successivo. […] E tuttavia qualche volta accade che il dopo – con le sue stagioni, le sue figure meglio definite nel teatro della memoria – prenda presenza non in sovrapposizione né in contrapposizione al tempo dell’infanzia, ma in una sorta di contiguità con esso, allineandosi come suo semplice seguito. […] Sono soprattutto i luoghi che ho conosciuto dopo a mostrarsi talvolta, in modo inatteso, come contigui ai luoghi dell’infanzia. […] Il nastro continua a svolgersi, nella pellicola tremano puntini bianchi, se riavvicino lo sguardo distinguo bene gli edifici, le piazze, gli aeroporti, talvolta anche le aule universitarie nelle quali mi è accaduto di prendere la parola, tra queste la più insistente l’aula Unamuno di Salamanca, fuori di essa il giallorosa traforato degli edifici così simili alle facciate delle chiese salentine. […] L’infanzia non come una premessa né come un primo tempo, ma come un’anteriorità che è sorgente e principio: del suo alfabeto è fatta la lingua degli anni. Alla sua musica attinge il suono dei giorni» (pp. 133 – 135 passim).
Un bellissimo ritratto fotografico della madre Antonietta Manieri risalente al 1943 chiude il volume con un atto di grande generosità perché, vincendo la riservatezza che posso immaginare, Antonio Prete condivide con i lettori una sua foto privata e, ovviamente, a lui molto molto cara; ma un Album come questo, fatto di immagini in parole, concludendosi con una fotografia in bianco e nero, invita chiunque a riaprire il proprio album di foto d’infanzia, a ripercorrere ricordi che sicuramente faranno della terra d’origine di ogni lettore un salento dolcissimo di molte lingue e di molti nomi.
[in Via Lpsius]
Desidero manifestare pubblicamente la mia gratitudine nei confronti di Gianluca Virgilio che ormai da un bel po’ di tempo accoglie i miei contributi.