Rifaldone club

di Gianluca Virgilio

Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione.

Walter Benjamin, I <<passage>> di Parigi [N 2a, 3].

Ci ritrovavamo sul muretto della villa piccola, in Piazza Fortunato Cesari, vicino alla fontana. I primi giorni di settembre sembrava che la vita cittadina si stesse risvegliando piano piano, dopo un lungo torpore durato due mesi. Alcuni amici erano in città, altri in campagna, altri ancora, se il tempo era buono, continuavano a recarsi al mare in motorino senza far caso che l’estate fosse finita, con la speranza di trovare qualcuno per passare la serata. Presto sarebbe ricominciata la scuola. La fine dell’estate ci sorprendeva increduli e straniti, ancora dispersi tra il mare, la città e la campagna, quasi incapaci di prevedere quale sarebbe stato il nostro futuro. Sarebbe giunto l’autunno e poi l’inverno, e noi non avevamo un posto dove andare, non avremmo saputo come impiegare il nostro tempo, che in quelle sere di settembre ci appariva privo di una qualsiasi prospettiva. Avevo quindici anni, qualcuno ne aveva sedici o diciassette e cominciavamo a non vivere più alla giornata.

Fu in una di quelle sere di settembre che uno di noi disse che avremmo avuto bisogno di un luogo tutto nostro, lontano dal mondo degli adulti, dove ritrovarci la sera e trascorrere insieme l’inverno.

Rolando parlò con i suoi genitori e un pomeriggio ci portò a vedere lo scantinato di Via Orfanotrofio 9. Una porticina tutta scarrupata si apriva su una stanzetta piccola e bassa, senza altro pavimento che di terra battuta, piena di buche, dalla quale, attraverso uno stretto passaggio, si penetrava in un antro buio – la gran pancia della casa soprastante -, che riceveva una debole luce da una finestrella, chiusa da due sbarre di ferro a croce, allogata all’estremità opposta della cantina, nella quale erano stati ammassati cumuli di materiale di riporto, scaricati lì dopo la recente ristrutturazione della casa. In un’altra stanzetta, troppo bassa per starci dritti in piedi, si accedeva attraverso un porticina non più alta di un metro e mezzo. Eravamo nelle fondamenta fatiscenti e prive di pavimento di un vecchio edificio, una cantina dalla volta a botte sbrecciata: l’ideale per noi che non solo vi avremmo trovato un rifugio, ma anche l’occasione per mostrare che cosa eravamo capaci di fare.

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