di Antonio Errico
Sono come fuochi d’artificio che si generano nel buio all’improvviso; sono come girandole, vortici, mulinelli, gorghi, spirali, folgori, tempeste di luce, turbinii. Ammassi stellari, galassie, che congiungono scienza, meraviglia, mistero. Si possono attribuire forme anche suggestive alle cinque foto del cosmo a colori inviate dal telescopio Euclid in questi giorni. Lo stupore che suscita il cielo si fa anche più intenso. Eppure si ha l’impressione che la lontananza del cielo un poco si riduca, che la nostra appartenenza al cosmo diventi più prossima. Ogni volta che la scienza scopre qualcosa dell’universo, l’impulso e il desiderio di conoscenza si fanno più forti. Ogni volta si avverte il bisogno di una conoscenza ulteriore, che riesca a integrare la logica e la fantasia, un principio della scienza con l’intuizione di una poesia. Ogni volta si ha l’impressione che l’indecifrabile si possa decifrare, che i segreti si possano svelare, che si possa anche superare quella percentuale del cinque per certo che si conosce dell’universo. Anzi, più esattamente: degli universi. Il cinque per cento; ora forse un poco di più. Quelle foto inviate dal telescopio accendono l’illusione che l’altrove si faccia più vicino, che la comprensione dell’altrove possa essere meno di un’illusione. Una possibilità. In fondo, il processo di conoscenza ha avuto sempre lo stesso andamento.
“Fu a’ poeti il primo cielo non più in suso delle alture delle montagne”, disse Giambattista Vico nella Scienza nuova. Il profilo dei monti rappresentava il limite, il confine. L’insuperabile. Poi l’immaginazione spostò il cielo oltre le montagne e l’uomo inseguì l’immaginazione e raggiunse il cielo che aveva immaginato, quello che si stendeva oltre le montagne.