Di mestiere faccio il linguista 26. La diversità linguistica del pianeta

Le vicende della storia spiegano il successo di alcune lingue, la loro diffusione su territori enormemente più estesi rispetto all’originario. All’origine il latino, modesta parlata dei pastori che fondarono Roma, occupava un’area assai limitata del Lazio, stretto tra i dialetti italici e l’etrusco; fissatosi come lingua letteraria grazie all’opera dei grandi scrittori dell’epoca repubblicana, fu diffuso nel mondo allora conosciuto dalla forza conquistatrice delle armate romane. Più o meno rapidamente, generazione dopo generazione, i popoli soggiogati abbandonarono la loro lingua per assumere quella dei vincitori. Duemilacinquecento anni fa i ceti dirigenti etruschi (mostrando indifferenza nei confronti della propria cultura e sperando di ingraziarsi i più forti) spinsero i figli all’abbandono dell’etrusco e all’apprendimento del latino, lingua dei vincitori; conseguentemente, in poche generazioni la lingua etrusca scomparve e oggi noi possiamo solo visitare i resti di quella civiltà nelle necropoli etrusche. Al contrario il greco, lingua di indiscussa eccellenza culturale, non fu spazzato via, greco e latino convissero per secoli nei territori della Grecia e della Magna Grecia dominati dai romani. «Graecia capta ferum victorem cepit», ‘la Grecia conquistata conquistò il rude vincitore’, proclama la celeberrima frase di Orazio che sancisce la forza della cultura greca, in grado di permeare quella latina anche dopo la vittoria militare delle armate di Roma.

Nel quarto secolo dopo Cristo l’Europa era linguisticamente unita, si parlava latino dalla Spagna alla Romania, in Germania, in Inghilterra, nella fascia settentrionale dell’Africa (se facciamo riferimento alle denominazioni attuali di quei territori). Poi, lentamente ma inesorabilmente, a seguito della caduta dell’impero e di altri fatti, cominciò la frammentazione linguistica, la divisione in tante lingue diverse e in tanti dialetti che ancor oggi ci caratterizza.  Nascono i nuovi idiomi, le lingue romanze discese dal latino: francese, italiano, spagnolo, catalano, portoghese, rumeno e altre. I popoli affrontano le questioni imposte dalla frammentazione e riflettono sul proprio destino di comunità plurilingui. Comincia la storia nella quale siamo immersi ancora oggi.

Oltre al latino, in altri periodi alcune lingue hanno conosciuto una grande espansione. Dalla seconda metà del secolo XVII, tra il 1650 e il 1715, nei decenni dominati dal lungo regno di Luigi XIV, la potenza politica della Francia, l’eccezionale fioritura letteraria e scientifica e il circolare rapido della cultura in quella nazione, le esigenze di propaganda e d’immagine del potere  assoluto, favorirono l’elevazione del francese a lingua dominante, non solo in tutto l’occidente europeo ma anche nei paesi dell’Europa orientale, Russia in primo luogo, e altrove. In Italia l’egemonia esercitata dalla Francia  attecchisce con facilità,  favorita dalla mancanza di una salda compagine nazionale e dal frazionamento politico-culturale,  con piccoli stati e potentati spesso in conflitto tra loro. Qualcuno, a ragione, parlava di gallomania della cultura italiana, biasimando l’atteggiamento di supina acquiescenza alla moda culturale e linguistica che viene d’Oltralpe. Nel secondo Ottocento e ancora nella prima metà del Novecento l’unica lingua universalmente nota tra le persone colte è il francese, anche se vi sono avvisaglie di un cambio di tendenza che, nel tempo, assumerà enorme portata: l’irruzione dell’inglese, iniziata a piccoli passi, diventa via via sempre più rapida a partire dal secondo dopoguerra, fino ad assumere i connotati di una vera e propria corsa impetuosa nei decenni finali del Novecento e nel secolo che stiamo vivendo.

L’inglese è la lingua oggi dominante nel contesto planetario, capillarmente presente nella percezione e nell’esperienza di fasce amplissime della popolazione mondiale: lingua internazionale per eccellenza, necessaria per esigenze lavorative, per viaggiare, per interagire nei contesti internazionali. Parlare inglese significa di fatto essere in grado di comunicare nelle più diverse situazioni, non solo nella vita professionale ma anche, più generalmente, nella quotidianità. Attualmente il successo negli studi e nel lavoro richiede un’ottima conoscenza delle lingue straniere, e prima di tutto dell’inglese,  la cui diffusione massiccia è dovuta a ragioni storiche e politiche. Nel corso del XX secolo, dopo la seconda guerra mondiale, l’inglese è divenuto la lingua egemone, in virtù della supremazia economica e politica degli Stati Uniti e dell’estensione in più continenti dell’impero britannico.

Sarebbe miope non voler riconoscere la realtà dei fatti o esorcizzarne la dimensione. Si devono invece cogliere i dati essenziali della questione, all’interno di un  quadro di riferimento che consideri le lingue, tutte le lingue del mondo, come manifestazioni identitarie da trattare con il rispetto che meritano. Ci sforziamo, a ragione e per nostro vantaggio, di conoscere le lingue straniere e nello stesso tempo, con superficialità, ci riduciamo a usare l’italiano in maniera stentata, a volte con errori grossolani. Inascoltati, dalla scuola i professori lanciano continui gridi d’allarme.

Conoscenza dell’inglese e padronanza piena della propria lingua non sono in conflitto. Il cervello umano consente di padroneggiare più lingue, il plurilinguismo è ricchezza. In ecologia e in agricoltura la monocoltura è dannosa. Anche nei rapporti tra i popoli e nelle relazioni internazionali il monolinguismo non paga. Al contrario delle apparenze, l’inglese da solo non basta. Il processo di globalizzazione richiede strategie adeguate, anche in linguistica. Ne riparleremo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 12 novembre 2023]

                                                                 

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