Intervista ad Antonio Prete: è l’infanzia che custodisce il senso di ogni stagione della vita

Ricorda anche il primo libro che ha letto?

Avrò avuto sette o forse otto anni. Un libro preso in prestito da mia madre presso una bibliotechina dell’oratorio parrocchiale: “Il piccolo romito”. Non sapevo allora che quel racconto era una ripresa del Robinson Crusoe in chiave educativa e religiosa. Il nome dell’autore l’ho poi ritrovato molti anni dopo: un canonico tedesco, Cristoph Schmitt. La circostanza è singolare.  In una trasmissione radiofonica il conduttore mi aveva chiesto di dire del primo libro letto. Nominai “Il piccolo romito”, aggiungendo che non avevo più avuto modo di imbattermi in quel libriccino. Dopo alcuni giorni, al termine di una mia conferenza in una università, un giovane si presentò offrendomi il volumetto, ripescato tra i libri vecchi in una piccola libreria piemontese. Lo rilessi avidamente. Ma non potevo ritrovare nulla delle lontane sensazioni.

Invece, c’è stato  un libro che ha tracciato la sua strada verso la letteratura?

Un libro di 1850 pagine in carta india, una grande antologia di poeti di molte lingue in traduzione italiana: “Orfeo. Il tesoro della lirica universale”, a cura di Vincenzo Errante e Emilio Mariano.  Lo avevo visto tra i libri esposti a Lecce presso un’agenzia libraria, e avevo chiesto a un mio zio che convertisse il regalo promesso per Natale in un libro. Quel libro l’ho portato sempre con me, in tutte le case che ho abitato.

Con il  libro che esce in questi giorni, lei consegna la sua infanzia alla parola della narrazione. Non è la prima volta. In altri suoi libri si ritrovano  frammenti di quella stagione, ricordi di volti, di  voci. Perché queste scritture di ritorni, queste discese nelle profondità del tempo?   

Perché l’ infanzia continua a respirare in noi, ci appartiene, come la linfa all’albero. Occorre lasciarla affacciare nei pensieri, nei ricordi, nelle immagini. Un lampo del suo incantamento, del suo fantasticare, ci aiuta nell’asperità dei giorni. Questo credo intendesse Leopardi quando diceva che si è davvero vivi fino a che si resta fanciulli. Raccontare l’infanzia non è solo lottare contro l’oblio e la rimozione, è anche tentare di ritrovare uno sguardo, un punto di osservazione che buca l’inerzia di quello che chiamiamo realtà, e coglie il vivente nell’inerzia delle cose.

Il Salento che fa da fondo e da sfondo al racconto dell’infanzia, negli anni si è quasi completamente trasformato. I luoghi cambiano come le creature che li abitano. Di quel Salento dell’infanzia qual è l’immagine più forte che si è portata dietro e dentro?  

Direi, la luce, anzitutto. La luce del meriggio, delle strade nella controra, con i bambini avvolti da quella luce: era la libertà del dopoguerra, si viveva all’aperto, per la strada, i paesi non avevano che pochissime auto. Poi le donne sugli usci delle case la sera, il loro raccontare. Le botteghe degli artigiani: con le voci e il canto che si levava a volte, coprendo il rumore della sega, del tornio, della pialla. Il canto delle vendemmiatrici, delle raccoglitrici di olive che passavano all’alba su un carro, delle donne che negli androni di una masseria infilavano le foglie di tabacco. C’era molta musica nell’aria. Anche questo era il respiro di un nuovo tempo, un tempo senza più guerra. Eppure su queste immagini si sovrappongono le immagini delle partenze e degli addii. Il dopoguerra era anche un tempo di forti migrazioni dal Sud. Si scomponeva e dissolveva già una cultura contadina.

In quel saggio capolavoro che è il suo  Trattato della lontananza, riporta quei versi di  Juan Ramón Jiménez che in traduzione dicono: “Madre, dimentico qualcosa, ma non mi ricordo”.  Il libro che sta per uscire  si chiude con una foto. Quella di Antonietta Manieri. La madre. 

Sì. Nelle pagine torna la sua immagine, la sua voce, il suo affabulare. Ho anche descritto le figure di una foto della famiglia materna, i Manieri, con i due nonni al centro e i nove figli intorno: la maggiore, mia madre, e la minore, zia Stella – la sola ancora viva, novantaseienne – sono state anche esempi, oltre che di un affabulare fantasioso e insieme confidenziale, di una pratica assidua dell’ospitalità. Il racconto e l’ospitalità : sono le due figure ­ – del dire e dell’agire – che hanno fatto della mia infanzia un tempo al quale attingere nel resto delle stagioni. 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, venerdì 10 novembre 2023]

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