di Antonio Errico
La sua origine è a Copertino, tra gli ulivi e il santuario della Grottella, tra il mito di Giuseppe Desa – il frate asino, il santo dei voli- e il desiderio del mare, tra racconti di madre e filari di vite.
Ha insegnato letterature comparate all’università di Siena; ha scritto saggi, narrazioni, poesie; ha tradotto Baudelaire, Mallarmé, Rilke, Bonnefoy, Valéry, Jabés.
Per Antonio Prete, la scrittura non è solo la relazione tra un soggetto e la forma che si attribuisce alla sostanza delle parole; è anche, forse soprattutto, la ricerca delle coincidenze tra le dimensioni dell’essere e dell’esistere con le espressioni del linguaggio, la rivelazione dei significati profondi delle storie, dei loro nuclei essenziali, dei motivi e dei moventi che le hanno generate, del loro lievito, dei loro misteri. E’ anche un nostos, alle volte, inevitabilmente: il suo ritorno sentimentale al villaggio vivente nella memoria, al principio della sua storia, alla radice esistenziale, intima. Come accade in “Album di un’infanzia nel Salento” che esce per Bollati Boringhieri.
Professore, la prima pagina del libro corrisponde al suo primo ricordo.
Una notte, il cielo illuminato dai bengala, mia madre che mi tiene per mano mentre corriamo in campagna verso un rifugio, in alto il rombo degli aerei, poi, sovrapposta a questa immagine, quella di un gruppo di persone che sta intorno a una lampada a petrolio, nelle ombre di una cava, mentre una voce intona il rosario.
Pare un ricordo ancora chiaro, nitido.
Chiamiamo primo ricordo quel che il nostro rammemorare salva dall’oblio e dispone in un qualche ordine temporale. Sapendo che molto, di ciò che è intorno, è perduto, e che quello che rievochiamo è una ricomposizione postuma. Del resto, ogni racconto d’infanzia tenta di accerchiare con la parola del ricordo un vuoto.