Ma vediamo prima quello con Bodini che ha dei risvolti burrascosi sul piano biografico che suscitarono clamore nella società letteraria del tempo. Anche qui l’inizio del rapporto risale al ’41, esattamente il 19 maggio, data della prima lettera di Spagnoletti che aveva ventuno anni mentre Bodini, che era nato nel ’14, ne aveva ventisette. Anche questi lo invita a collaborare alla terza pagina di “Vedetta mediterranea” che però i due curatori, Bodini e Macrì, preferiscono abbandonare, dopo i primi dodici numeri, per non allinearsi alle direttive culturali del regime fascista, come era stato loro richiesto. Nel ’46 esce l’Antologia di Spagnoletti su cui Bodini in una lettera esprime qualche riserva parlando di una sorta di compromesso fra l’indirizzo storico e la fazione ermetica. E forse già questo giudizio incomincia ad incrinare il rapporto tra i due.
Ma arriviamo ora al momento centrale e più clamoroso del rapporto tra i due. Nel ’52 esce il primo libro poetico di Bodini, La luna dei Borboni, a cui il critico tarantino dedica una recensione negativa, una vera e propria stroncatura, dal titolo Lune in ritardo, apparsa sul “Raccoglitore” della “Gazzetta di Parma” l’8 gennaio del 1953, in cui in verità dimostra di non aver compreso la novità rappresentata dall’operazione bodiniana che sostanzialmente consiste nella scoperta del Sud come motivo nuovo di poesia. Spagnoletti lamentava, come scrisse in una lettera proprio a Macrì del 20 febbraio, “anche, e soprattutto, il fatto retorico, l’accademia ispano surrealista del Bodini […] tendente a darci del sentimento meridionale, delle angosce […] telluriche, metafisiche, ecc. un’immagine letteraria stanca, inutile”. In particolare, nella recensione, rimproverava a Bodini la sua dipendenza dagli spagnoli da lui tradotti, dall’ermetismo e dal surrealismo: “Bodini, per quanto abbia tradotto, si direbbe ancora ubriaco: degli Alberti, dei Lorca, degli Aleixandre, ecc, a cui il suo sangue pugliese, il suo istinto melodico e rapsodico di letterario gitano l’avevano chiamato. Ma non dimentichiamo l’ermetismo e il surrealismo”. Da qui il suo repertorio di immagini, che S. elencava: “Sud, sud, sud, amare giade, sostantivi, pettini e capelli, campi di tabacco, semi di girasole, peperoni rossi, piazzette bianche e monache nere, ecc. ecc. […] tutte cose mischiate – scriveva – senza effettiva misura… senza un vero sgomento che dal contenuto risalga alla mente… filze di immagini accatastate, con letteraria indiscrezione”. Ma contestava anche l’odio-amore di Bodini verso la sua terra che “lui s’illude di amare ma che in realtà disprezza”. E alla fine sosteneva che l’unico Sud vero che può emergere dalla letteratura, secondo Bodini ma anche Raffaele Carrieri che viene accostato al poeta leccese, è quello della “macelleria surrealista al suono di chitarre spagnole”.
Bodini rispose con una violentissima Lettera al Direttore della “Gazzetta di Parma”, che però non venne pubblicata e quindi rimasta inedita, nella quale definiva, ad esempio, Spagnoletti “piccolo baro”, affetto da una “patologica inferiorità”, “squallida larva”, “anima impotente e parassitaria”, e la sua recensione un “attacco isterico… un attacco personale in cui non è trascurata neanche l’arma della volgarità”. Non mancavano nemmeno allusioni, a volte sgradevoli, al suo aspetto fisico, alla sua voce femminea. Rievocando gli anni passati, sosteneva ancora che la sua Antologia era quella d’un fallito “fatta coi suggerimenti di Macrì e poi orientata in funzione di Luzi”. E, infine, a proposito della dipendenza dai poeti spagnoli, rimproveratagli nella recensione, scriveva con una battuta “Meglio gli Spagnoli che gli Spagnoletti”.
Ma non fu sufficiente a Bodini questa reazione verbale perché subito dopo ce ne fu una di tipo fisico, del tutto inaspettata e mai vista forse fino ad allora, che ha fatto epoca negli annali della storia letteraria italiana del novecento. Fino a pochi anni fa di questo episodio si avevano solo testimonianze indirette. Ora, dopo la pubblicazione del carteggio con Macrì possiamo vedere come la racconta lo stesso Spagnoletti in una lettera, datata “Milano 3 maggio [19]53”:
Carissimo Oreste,
ecco la nostra Puglia! Prima che la cosa si diffonda sotto forma di stupido pettegolezzo, o peggio si deformi, desidero raccontarti cosa è avvenuto ieri sera. Si era tutti al caffè, sotto i portici di Corso Matteotti. Sabato sera, erano venute anche le signore. D’improvviso appare Vittorio Bodini, si avvicina a me, che non ho neppure il tempo di vederlo, e… mi massacra di pugni e di schiaffi, mandandomi in frantumi gli occhiali. Scena all’aperto interviene gente, Bodini si dilegua. Ho dovuto spiegare agli amici rimasti lì impalliditi dallo sdegno, che si trattava della risposta ad una mia recensioncina apparsa sul «Raccoglitore». Cos’altro avrei da aggiungerti, caro Oreste? Mentre gli amici milanesi sono stati unanimi nel decidere di mettere al bando quell’uomo, io ti sarei grato (grato veramente con le lacrime agli occhi) che tu scrivessi – se è possibile ancora che tu scriva – due righe ad uno che è stato anche mio amico. Lascio a te la parola. Sono troppo afflitto per suggerirti alcunché. Sono afflitto e disgustato come mai lo sono stato. E dire che stavo per rispondere ad Albertina, alla nostra cara Albertina, con una letterina affettuosa quanto la sua. Stavo già per almanaccare giochi di parole e rime con Bogotà… Ringraziala delle sue gentili parole. A te un abbraccio è dir poco, vorrei starti vicino adesso, con tutta l’anima.
Il tuo Giacinto
Questa vicenda fece scalpore nella società letteraria italiana del tempo e se ne trovano tracce anche in altri carteggi tra letterati. Ecco, ad esempio, che cosa scrive Alessandro Parronchi, un poeta fiorentino rappresentante dell’ermetismo, al romanziere Vasco Pratolini l’8 maggio del ’53: «Vuoi saperne una? Bodini, che aveva avuto una recensione sfavorevole da Spagnoletti, ha fatto irruzione al Caffè S. Pietro a Milano e l’ha violentemente picchiato dandosi poi alla fuga […]».
Un riferimento a questa vicenda c’è anche in una lettera di Macrì a Spagnoletti del 4 maggio 1953, in cui gli esprime la sua solidarietà:
Mio caro Giacinto,
mi dispiace una cosa: di non essere stato io presente, altrimenti il Bodini non se la sarebbe cavata liscia e avrebbe raggiunto i suoi rozzi mani. Altro non c’è da fare se non dargli querela: è una lezione che si merita dalla piccola giustizia che è sufficiente per tali furfanti. Io ho rotto qualunque rapporto e solo indirettamente – attraverso De Rosa – posso manifestargli il mio disgusto e la mia indignazione. Desidererei molto rivederti, ma per parlare di altro, naturalmente. Fraternamente ti abbraccio e ti sollecito a continuare imperterrito la tua milizia letteraria.
Tuo Oreste
C’è da aggiungere che le poesie di Bodini non figurano in nessuna edizione dell’Antologia di Spagnoletti, che gli dedica soltanto poche righe nella Storia della letteratura italiana del Novecento, del 1994. Ma anche il rapporto con Macrì, che sembrava così stabile e cordiale, anzi affettuoso da parte del più giovane critico, che si rivolgeva a lui come a un maestro (in una lettera a Bodini lo definisce “senza dubbio … l’uomo più grande del secolo”), si interrompe bruscamente nel 1956, anche stavolta a causa di una recensione negativa di Spagnoletti del volume Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea del primo, dal titolo Con Oreste Macrí tra i poeti del nostro secolo, apparsa su «La Fiera letteraria», nel n. 47 del 1956 che Macrì definì in una lettera inviatagli del 9 dicembre 1956, una “stroncatura totale di tutti i miei studi”.
Che cosa aveva sostenuto l’autore in questo articolo? Intanto aveva accusato Macrì di non aver fatto una «trattazione storico-letteraria», di non aver dato un «organico disegno critico» del Novecento, come lui si sarebbe aspettato, e inoltre di aver fatto iniziare questo secolo con alcuni poeti come Rebora, Campana, Cardarelli dimenticando crepuscolari, futuristi, vociani, rondisti e tacendo su altri come Sbarbaro e Govoni. Ma anche stavolta Spagnoletti non aveva compreso perfettamente le intenzioni di Macrì il quale aveva una visione categoriale del Novecento poetico, incentrata su un’idea neosimbolista ed ermetica della poesia, a cui tutto doveva essere ricondotto, mentre egli aveva in mente una concezione più ampia, più inclusiva che comprendeva tutto. Ciò comprometterà l’amicizia tra i due che praticamente si concluderà quell’anno. Macrí, che non sopportava la pur minima obiezione alla sua concezione e aveva affidato a Spagnoletti la cura di un’antologia delle riviste dell’ermetismo, reagirà molto duramente con lungo articolo pubblicato sempre sul n. 51 del ’56 de “La Fiera letteraria” e in una lettera del 27 novembre ’56 gli scriverà:
Caro Giacinto,
solo oggi, dopo giorni faticosissimi di esami e tesi di laurea, sono in grado di rivolgerti il mio ringraziamento per la tua recensione dei Caratteri nella «Fiera». Purtroppo, un ringraziamento molto generico, giacché, per quanto l’abbia letta e pensata un paio di volte, non sono riuscito a comprenderla nelle osservazioni critiche e nei motivi psicologici. D’altra parte, non mi sembra che si tratti di una recensione, ma di alcune illazioni su pochi periodi avulsi da un contesto di c[irc]a 800 pagine (includendo gli Esemplari intimamente collegati ai Caratteri) e di alcuni lustri di duro e continuo lavoro, immacolato ed onesto.
Quel che mi sembra di aver capito oscuramente su un piano psicologico è una certa tua insofferenza, se non rivolta, ai principi eroici e categoriali della nostra poetica. Io rispetto tutte le posizioni, purché siano sincere, meditate e appassionate. Nel tuo caso ho scarsissimi indizi per giudicare, nei puri termini della tua attività di critico, su un “corso” diverso: staremo a vedere.
Questa recensione provocò, come s’è detto, la rottura immediata e definitiva di questo rapporto. Ugualmente interessante ma non privo di contrasti è anche il rapporto con Girolamo Comi che Spagnoletti, pur essendo già in contatto con lui, non aveva incluso né nell’antologia del ’46 né in quella del ’50 perché, come scriveva esplicitamente in una lettera a Macrì del 2 febbraio ’48, i suoi versi non gli piacevano. Anche Anceschi, d’altra parte, pur essendo amico di Comi e socio dell’Accademia salentina, non aveva inserito Comi nella sua Antologia del ’53, provocando il comprensibile, ma composto, risentimento del poeta. Dal canto suo, Spagnoletti si lamentò con Macrì che non era stato chiamato a fare parte dell’Accademia salentina fondata da Comi nel ’48 a Lucugnano dove era ritornato dopo la guerra, come scrive in una lettera del 21 gennaio di quell’anno:
Tu dirai che sono permaloso o impermalito, ma certe faccende vorrei chiarirtele, senza sottintesi. La faccenda dell’Accademia Salentina, non mi è andata giù. Eh, no, Oreste! Non mi dire che io pretendo troppo, se volevo essere assolutamente dei vostri. Era implicito. […] Quando mi son visto escluso, e escluso così bellamente, mi sarei quasi messo a piangere. Io che mi attacco, in mancanza di altro, al giornale borbonico di Taranto, pur di sentirmi vivo in carne e ossa in terra mia […]. / Dunque mi son sentito molto addolorato. Ti va o non ti va quest’espressione? Poi, incontro Anceschi che mi dice: sai, io sono nel “consiglio”, qua e là… Non so in che consiglio, in che modo, per che cosa l’hai ficcato. Quel mestolone milanese, stupido e vanesio! […] / Ma, a parte tutto, mi hai fatto incazzare con la storia dell’Accademia Salentina. Sarò irritato fino a tempo indeterminato […].
In una occasione, però, al terzo convegno dell’Accademia (3 gennaio ’49), partecipò ai lavori come “osservatore”. Poi nel ’54 in una lettera del 9 agosto cerca in qualche modo di spiegare i motivi dell’esclusione, giustificandosi con la sua “educazione letteraria” e i “troppi vizi delle letture giovanili” , scrivendo, fra l’altro così:
Quando si trattò di scendere a fatti, e sceglierti un posto fra i tanti poeti d’oggi, dove metterti? Si trattava di capire il mio stato d’animo, di chiarire a me stesso molte cose. Ma ne ero capace? Si procede, quando si è ragazzi, più per sentito dire, più per entusiasmi, che per ragionate intime indicazioni”. […] Perché ti scrivo questo? Perché è giusto e perché nell’occasione di una lettura globale della tua fatica poetica, mi hai fatto pensare agli anni della prima giovinezza, e al tuo problema che non avevo risolto. E forse ora modestamente, passerò (al tuo dignitoso animo posso dirlo) passerò agli illimitati consensi, radunando delle lodi che non accetteresti? Siamo semplici e veri, Comi. Non si giuoca a biliardo. Mi sforzerò di capire, di esprimere uno stato d’animo diverso, criticamente e umanamente; perché a questo mi spinge la considerazione, che vado facendo del tuo lavoro, dopo averlo voluto ignorare, scrivendo della poesia moderna.
E, in effetti, nell’edizione del ’59, Spagnoletti incluse nella sua antologia Comi, il quale nel suo testo di presentazione accennava a un “caso Comi”, alludendo proprio a quella esclusione dalle precedenti edizioni, oltre che dalla Lirica del Novecento del ’53 di Anceschi che pure lo amareggiò molto.
Il rapporto col coetaneo Vittorio Pagano, poeta e traduttore, infine, si sviluppa soprattutto, come documentano le lettere di Spagnoletti, a partire dal 1947, allorché egli entra a fare parte della redazione del settimanale leccese “Libera Voce”, diretto da Federico Massa, un avvocato leccese, e di cui faceva parte anche Pagano. Su questo periodico pubblica diversi articoli su Betocchi, Parronchi, e poi ritratti di Luzi e Sereni e altri interventi di varia natura. Proprio insieme a Pagano, sempre nel ’47, il 15 maggio, organizza la visita a Lecce di Ungaretti che tenne una conferenza presso il Circolo cittadino, dopo averne tenuta un’altra a Taranto su invito di Antonio Rizzo, direttore del settimanale “La Voce del Popolo”, con il quale prese pure i primi contatti in vista del nascente Premio Taranto, di cui sarà presidente della Giuria. A Lecce lo aspettavano, oltre a Vittorio Pagano, intellettuali, artisti e persone comuni che andarono ad ascoltare il discorso di due ore su Giacomo Leopardi. Ungaretti fu ospitato in casa dello scultore Antonio D’Andrea e gli amici lo seguirono anche lì. In pratica tutta la notte Pagano, Spagnoletti e gli altri rimasero nella sua camera a farlo parlare di Leopardi, Manzoni e di poesia. Di questa memorabile giornata leccese restano una foto scattata in Piazza Sant’Oronzo (in cui figurano, oltre a Ungaretti, anche Spagnoletti e Pagano) e un resoconto entusiasta di Pagano apparso sul settimanale “Libera Voce”. E anche questo è un episodio che conferma l’importanza, per Spagnoletti, del rapporto con l’ambiente letterario leccese di quegli anni e con i suoi principali rappresentanti.