di Antonio Devicienti
Stratificata città in riva a un fiume che, immenso, s’apre all’Oceano e che non potrà essere descritta, ma, nel testo, essa si darà per riverberi e suggestioni, per leggende e parole della letteratura.
Una città che, a guardarla nella sua ascesa di finestre e tetti, si squaderna davanti allo sguardo, ma serba il silenzio delle vite che nelle stanze accadono.
Il testo, appunto: una tessitura di sintassi e silenzio. Oltre che d’ipotesi. Silenzio e solitudine, necessari.
D’altronde s’addensa nella scrittura il piacere stesso di scrivere, l’irrinunciabile eccitazione dell’architettare pensieri. Dialogano col silenzio.
Abitare Lisbona. Abitare il testo. Giungere a Lisbona. Giungere nel testo che, nebuloso, si profila per prendere forma, talvolta lentamente, talaltra più rapidamente.
Finestre finestre finestre. S’affacciano dal testo verso la punta della penna, guardano verso di essa.
E scrivere a mano. Ascoltare la radio. Essere antimoderni? Al contrario: lasciare maturare dentro di sé la modernità.
Talvolta mi piacerebbe avere l’attitudine degli acquerellisti del Settecento: meglio che fotografare, disegnare o dipingere questa città, costringere l’occhio a concentrarsi, non a usare la stampella dell’obiettivo fotografico. Vedere i volumi e i colori, gli spazi e le ombre.
Ma così dicendo arreco un torto all’arte sublime della fotografia: anche fotografare presuppone attenzione e conoscenza perfetta del mezzo fotografico. Bisogna sempre di nuovo saper vedere – e trascegliere.
Un acquerello e una foto dal Miradouro de São Pedro de Alcântara sono differenti e, nello stesso tempo, affini – non perché restituiscono l’immagine del medesimo luogo, ma perché presuppongono lo sguardo del viaggiatore, non del turista (spessissimo dozzinale la fotografia del turista, ripetitiva, cerca sempre gli stessi luoghi).
Lisbona sfida lo sguardo, lo seduce e lo immerge in una luce che vibra di finestra in finestra, di cornicione in cornicione.