Non mi pare che da noi abbiano avuto la stessa risonanza. Dopo la notizia data nei giornali del giorno dopo, non se ne è più praticamente parlato. Forse è stata considerata una manifestazione di debolezza senile e tutta l’attenzione dei media è stata dedicata ai movimenti delle truppe ed alle dichiarazioni reboanti dei politici.
Eppure, il gesto ha un potente valore simbolico: se si vuole risolvere la questione mediorientale, è da quel semplice gesto, da quella semplice parola, che bisogna ripartire. Se si vuole che quella terra non sia un continuo assedio dei paesi arabi circostanti a Israele e questo non sia un paese che vive in continuo stato di guerra. Che ciò avvenga è difficile, ma non impossibile. Sembrava impossibile, nel 1993, la stretta di mano tra Rabin e Arafat. Bisogna sperare che tutti abbiano la forza di deporre le armi, soprattutto quelle mentali, che perpetuano l’inimicizia tra i due popoli.
Per Israele dovrebbero valere le parole del Qoelet:
«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.»
Sinora è stato il “tempo della guerra”; è tempo che venga il “tempo della pace”.