di Antonio Errico
“Arrivando a ogni nuova città il viaggiatore ritrova un suo passato che non sapeva più d’avere: l’estraneità di ciò che non sei più o non possiedi più t’aspetta al varco nei luoghi estranei e non posseduti”.
Il viaggiatore arriva in una città; vede qualcuno in una piazza vivere una vita o un istante che potevano essere suoi; al posto di quell’uomo avrebbe potuto esserci lui se si fosse fermato nel tempo tanto tempo prima, oppure se tanto tempo prima a un crocevia invece di prendere una strada avesse preso quella opposta e dopo un lungo giro fosse venuto a trovarsi al posto di quell’uomo in quella piazza. Da quel suo passato vero o ipotetico, lui è escluso; non può fermarsi; deve proseguire fino a un’altra città dove lo aspetta un altro suo passato, o qualcosa che forse era stato un suo possibile futuro e ora è il presente di qualcun altro.
Così scriveva Italo Calvino in una pagina de Le città invisibili.
Le città e il viaggiatore sono metafore: dell’essere e del tempo, dell’essere nel tempo, di quel viaggio che è l’esistenza, durante il quale si vivono storie mai vissute prima che riportano il pensiero a quelle già vissute, e si incontrano creature mai viste prima che hanno la vaga fisionomia delle creature conosciute per lungo tempo, o per un istante solo. Forse nel corso del viaggio ogni cosa riconduce ad un’altra che qualche volta è adagiata sui fondali della memoria ma che riemerge improvvisa quando una voce, un volto, un angolo di strada, quando un’immagine, un’emozione, una sensazione, un trasalimento, un sentimento, una nostalgia la richiamano pretendendo che si ripresenti, nitida, precisa.