Priviero, veneto di origine ma residente a Milano, dopo gli album San Valentino del 1988, Nessuna resa mai del 1990, con la produzione di Little Steven, e Rock in Italia del 1992 (una serie di canzoni generazionali come quella che dà il titolo all’album) , tre lavori abbastanza compatti e noti, pur entrando in un cono d’ombra, nel 1994 pubblica Non mollare con pezzi grintosi e densi come Non mollare, Addio Italia, Giustizia e libertà, I segni del tempo, Baby baby. Nel 1998 pubblica Priviero con pezzi come Rabbiamore, C’è una città, Angelina e Nordest. La sua proposta di una via italiana al folk-rock americano di Bob Dylan, Neil Young, Van Morrison, è molto interessante. Passa dal rock più pompato alla Springsteen alle ballate romantiche, con una venatura blues che percorre sottotraccia le canzoni. Ma se musicalmente Priviero risulta molto capace, non così nella scrittura dei testi cui manca qualcosa di inafferrabile, quell’immateriale che fa entrare le canzoni nell’archivio sentimentale degli ascoltatori.
Nel 2003 esce Testimone in cui il Nostro vira sempre più decisamente verso quelle tematiche sociali che gli stanno a cuore per cui la sua si caratterizza come musica di impegno civile. Pezzi come Nikolajevka, Terra santa, Agnus Dei, Ritorno, uniscono la matrice folk e popolare del combat-rock alla valenza sociale dei temi trattati; così, nel 2006, Dolce resistenza con La strada del Davai, Italia libera, Clandestina, Ragazzino, Vincere. Molti pezzi trattano temi di storia del Novecento e non a caso Priviero è laureato in Storia contemporanea all’Università di Venezia e si impegna anche in spettacoli di musica e teatro civile. Ma se i risultati di vendita non arrivano più, Priviero diviene un cantautore di nicchia e si guadagna la fama di intellettuale rock presso la ristretta cerchia di ammiratori. Gli viene anche dedicato un libro Nessuna resa mai: la strada, il rock e la poesia di Massimo Priviero, di Matteo Strukul (Meridiano Zero, 2010). Nella Presentazione, si legge: «”Ho visto il futuro del rock italiano e il suo nome è Massimo Priviero”. Era questa la frase che, parafrasando quello che Jon Landau aveva detto quindici anni prima per definire l’astro nascente del rock Bruce Springsteen, campeggiava sulle centinaia di manifesti che tappezzavano la Milano di fine anni Ottanta. In quei giorni la Warner Bros lanciò nell’iperspazio un giovane rocker della provincia veneta che si era trovato al centro dell’universo musicale italiano al momento giusto. Due dischi di grande successo, il secondo prodotto da Steven Van Zandt (chitarrista della E Street Band di Springsteen) e il sogno era diventato realtà. E poi i riflettori improvvisamente si spensero. Per Massimo cominciò un esilio, fatto di fatica e rincorse e una carriera in trincea trascorsa a riprendere lo spazio perduto, un centimetro alla volta. Ma la credibilità non venne meno, la qualità degli album crebbe in modo esponenziale, la poesia dei testi arricchì melodie efficaci e dal 2000 Priviero tornò alla luce. La sua reinterpretazione di Ciao amore ciao di Luigi Tenco e l’album “Dolce resistenza”, premiato da risultati importanti, gli valsero riconoscimenti e successo di critica e pubblico, consacrati nel recente “Sulla strada”, uscito per Universal, albo antologico che da solo vale una carriera. In un libro che è una confessione a cuore aperto, il rocker italiano rivela a Matteo Strukul uno dopo l’altro i capitoli di un’incredibile avventura artistica».
In Rock & Poems del 2007, Priviero reinterpreta classici dei ’60-’70: da Dylan a Waits, a Fogerty. Nel 2012 esce “Storie dell’altra Italia”, un album condiviso con i The Gang e il giornalista Daniele Biacchessi, incentrato sui mali civili che affliggono il “Paese della vergogna” come viene definita l’Italia, con pezzi di grande tensione civile nello spirito del rock. In Folk Rock, del 2012, Priviero rende omaggio in chiave acustica alle grandi canzoni del rock, come Hard rain’s a-gonna fall e Ring them bells di Bob Dylan, Give my love to Rose di Johnny Cash, Thunder road di Bruce Springsteen, Before the deluge di Jackson Browne, Helpless di Neil Young, And the healing has begun di Van Morrison ed altri.
Nel 2013 esce Ali di libertà con pezzi come Apri le braccia, In verità, Madre proteggi, Alzati, La casa di mio padre, in cui sembra di sentir riecheggiare la migliore tradizione cantautorale italiana dei De Gregori, Dalla, Guccini, Fausto Amodei, De Andrè, Bubola, ecc. Ancora un lavoro di musica e memoria, nel 2014, intitolato Terra e pace, in collaborazione col gruppo lombardo dei Luf, dove vengono rilette le più celebri melodie della tradizione alpina.
Come dicevo, sembra però che nei suoi testi manchi qualcosa, non c’è quella mediazione poetica necessaria ad un testo creativo quale quello di una canzone. Lo stile prosastico rende le canzoni poco attrattive e anche difficilmente cantabili per via di una certa mancanza di melodia. Un certo furore predicatorio gli impedisce di mettere bene a fuoco i temi di cui trattano le canzoni, come l’emigrazione, la guerra, il lavoro, la spiritualità, che sono temi importanti se declinati nella migliore tradizione del cantautorato civile italiano. Nel 2015 esce Massimo, una raccolta arricchita da tre pezzi inediti. È verso gli ultimi anni che Priviero sembra dare il meglio di sé. La sua voce arrochita e una indubbia maturazione nella scrittura dei testi rendono gli ultimi lavori (quelli della riscoperta, direi, per quanto mi riguarda) molto più degni. Con All’Italia, del 2017 e Essenziale, del 2021, Priviero ci consegna un bagaglio musicale certo consistente.