Tommaso Fiore: l’etica e la storia del popolo di formiche

Nel corso del viaggio, Fiore  dice del paesaggio e della sofferenza della gente, delle delusioni e delle contraddizioni della Storia, della rassegnazione e della rabbia silenziosa, degli sforzi di redenzione economica,   di Alberobello e di Locorotondo,  e dei contadini timidi, impacciati, chiusi, e quindi capaci di esplosioni improvvise, e di qualche vecchio intelligente e sentenzioso, capace, per bisogno, di fare l’indovino, il profeta, il consigliere, il novellatore, il poeta. Dice di Taranto: della città antica lanciata a sbarrare i due mari, come una vecchia nave sdrucita, in pieno vento, città di balconi e balconcini che si danno la mano, minuscole finestre gomito a gomito, con pochi vasi di basilico e di prezzemolo, vicoli che si restringono, si intanano, donne sulle porte, operai che ripiegano gli occhi se qualcuno li guarda.   Quando il tempo è cattivo, gli uomini  bevono e giocano a carte. Le donne portano in pegno  i pochi ori e la biancheria nuova. Taranto. La città moderna è tutt’altra cosa. Luce fognature acqua strade asfaltate, tram.  

Scriveva Manlio Rossi-Doria: “ La Puglia degli anni Venti, che Fiore presenta, è una regione quasi esclusivamente agricola, nella quale i rapporti di classe e le prospettive economiche della campagna dominano anche le città; segnano con la loro impronta l’intera struttura sociale della regione, i comportamenti politici e amministrativi delle classi dirigenti, perfino gli orientamenti, le virtù ed i vizi delle persone colte. Questa matrice agricola è così antica e si evolve in modo così lento e tradizionale da giustificare la frase con la quale, nella prima lettera, Fiore entra in argomento: anzitutto la Puglia è una espressione archeologica. La nostra vita fu”.

Cambiano i luoghi. Cambiano le creature che abitano quei luoghi. Cambiano le storie che coinvolgono le creature e attraversano i luoghi. Il tempo sfuma i contorni, deposita sabbia sulla memoria di tutti, di ciascuno. Di quello che è stato talvolta non resta nulla. Talvolta, invece, resta quell’unica cosa che è in grado di rinnovare la memoria, di raccontare com’è stato in un altro tempo un luogo, come sono state le sue creature, quali storie correvano per le strade, e quali sogni ad occhi aperti si facevano, e quali bisogni a bocca chiusa si esprimevano. A volte di un luogo resta soltanto quello che è scritto in una pagina di romanzo, in una poesia.

La Puglia che ha raccontato Tommaso Fiore non esiste più, com’è naturale che sia. Di quella Puglia restano le sue pagine. Quelle che dicono di Lecce, per esempio. Lecce l’armoniosa. Dove palazzi, pietre, strade, cortili, finestre, loggette, dove anche le più umili abitazioni hanno conservato l’antico carattere storico, artistico. Se a Bari, a Taranto, a Trani, si ritrovano qua e là belle cose, a Lecce bisogna fermarsi per strada continuamente, perché in ogni angolo si manifesta la bellezza. Lecce, per esempio. Città di gente vivace, sensibile, fine, ospitale, elegante, di studio, di foro, di mondo, città di gente che non può accettare altro se non il dominio della cultura, della finezza e dello spirito liberamente espresso. Attorno ai tavoli dei bar piovono le notizie della giornata precedente; scoppiano motti, stroncature, favolelli, panzane, satire garbate, contraffazioni burlesche, risate senza cattiveria, conferenze improvvisate.

“Un popolo di formiche” è Storia che non si può ignorare se si vuole comprendere profondamente tutto quello che è accaduto dopo, il modo in cui è cambiato il paesaggio, il modo in cui è cambiata la gente,  se si vuole interpretare correttamente il processo di sviluppo e di progresso che ha fatto questa terra com’è adesso.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Mercoledì 25 ottobre 2023]

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