Come un poeta visionario, come il veggente di un poema epico, Federico Fellini metteva in scena un mondo immaginato sognato inventato trasformato deformato. Trasfigurava il mondo. Trasfigurava: andava oltre la figura, oltrepassava i confini del modello, scomponeva i codici delle immagini, ne disfaceva la compattezza trasformando tutto in frammenti. Esaltava l’ambiguità, l’enigma, il nonsenso. Come un mago, un illusionista, un negromante, provocava la rivelazione di quello che è nascosto, o l’apparizione dell’inesistente, un ordine della confusione o la confusione delle cose ordinate.
Creava un universo di nulla e dal nulla, che poi all’improvviso si dissolveva.
I suoi personaggi sono figure trasognanti, stralunate, che riescono a creare incantamenti. Sono realisti e sognatori, allo stesso tempo, costituendosi come dimostrazione che non esistono realisti senza sogno e sognatori privi di realismo, che non esistono i pragmatici senza una visione e i visionari senza pragmatismo. Figure provenienti da universi fantastici, fiabeschi, che si radunano tutti in una dimensione di poetica onirica, surreale, che a volte sembrano suggerire che forse sì, forse potrebbe essere anche che esista un mondo diverso da qualche parte, o che si possa creare un mondo diverso da qualche parte, o che si possa anche arrivare a capire il mondo che abitiamo. Potrebbe anche bastare poco, per capire. Potrebbe anche bastare un po’ di silenzio, come dice Ivo Salvini (Roberto Benigni) nella “Voce della luna”: “Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”.
A volte per capire le cose bisogna guardarle e analizzarle operando uno scarto dalla comune grammatica della visione, indagare i motivi per i quali accadono in un modo e non in un altro, recuperare i significati depositati sui loro fondali, individuarne le connessioni, i punti di unione e di frattura, adottare metodi inediti e linguaggi dissonanti, compositi, eclettici, svelare la disarmonia che nascondono sotto l’armonia apparente.
Fellini aveva una straordinaria capacità di contaminazione di forme e di linguaggi, un’espressività portata fino ai limiti della sperimentazione. Ma soprattutto aveva una tensione verso la conformazione di un immaginario altro ed ulteriore, che sfugge alle categorie e alle classificazioni. E’ un immaginario che sembra non conoscere confini, che eccede, straripa, si gonfia, si dilata, si spande. Tutte le sue storie cominciano e finiscono in quell’immaginario; tutta l’esistenza dura il tempo di un film e si consuma nello spazio di un film. Fuori dal film non c’è niente, non ci può essere niente. In fondo la vita non è altro che un film: un susseguirsi di scene, che qualche volta hanno una logica, che spesso invece non ne hanno, generate e governate dal caso, dall’imprevisto, da una indecifrabile combinazione di elementi, condizioni, situazioni che sembrano assolutamente inconciliabili.
Qualche volta si ha l’impressione che i film di Fellini abbiano un’ansia di conclusione.
Durante un’intervista a Eugenio Scalfari disse che per lui il momento più entusiasmante è quando si smonta il set, quando si smantella dopo l’ultima scena, e gli operai tirano le tende, portano via gli scenari, i riflettori, i soppalchi. “Quest’opera distruttiva mi dà una gioia indicibile, e me la vedo tutta fino all’ultimo”.
Dopo l’ultima scena, il mago, l’illusionista, il fabbricante di mondi, ritorna ad essere semplicemente un uomo, nel suo mondo semplice e vero.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 22 ottobre 2023]