Il libro è articolato a dittico, in due tomi, per meglio rappresentare le varie tensioni, le diverse disposizioni di un’intelligenza mobilissima e capace di mettere in relazione gli ambiti di volta in volta privilegiati senza mai lasciare che alcuno di essi potesse essere interpretato come nobile ripiego, ricadendo nella categoria di un «secondo mestiere». Ai venti contributi mirati a gettar luce sull’officina creativa succedono, nel volume gemello, quindici esplorazioni nei territori contigui, gli «immediati dintorni» cari a Vittorio Sereni, secondo tragitti segnati da una strenua ricerca espressiva ai cui fini Bodini fa convergere la maestria del traduttore (tra i maggiori del nostro Novecento), la dottrina del professore di ispanistica, la sagacia dell’operatore culturale e la curiosità del giornalista e critico militante: gli scritti di Anna Lucia Denitto, di Ines Ravasini, di Paola Laskaris, di Nancy De Benedetto, di Rita Martinelli, di Giulia Dell’Aquila e di Salvatore Francesco Lattarulo portano in primo piano i rapporti di Bodini con la Spagna e la ricezione della sua poesia nel paese iberico. Il vettore Spagna-Salento appare rafforzato dalle conclusioni dei saggi raccolti nel volume: ci vengono offerte anticipazioni dalle traduzioni presenti in archivio, ad esempio quelle da Manuel Machado o da Góngora, del quale non vengono privilegiate le invenzioni culte e concettiste dei sonetti quanto la vena di poesia popolaresca, quasi che il secentista venga passato al vaglio dell’amatissimo Lorca (il nutrito gruppo di scritti sulle traduzioni e la mediazione culturale con la Spagna reca le firme di Laura Dolfi, Giuseppe Mazzocchi, Paolo Pintacuda, Ines Ravasini). Numerosi sono i motivi di interesse e le linee di diramazione che da questi Atti si dipartono per abbracciare un discorso complessivo sul canone della poesia novecentesca; si affacciano gli interrogativi e le questioni ineludibili per condurre una disamina scevra di pregiudizi su un panorama, quale quello del Parnaso italiano del secolo scorso, omogeneo quanto a pregnanza degli esiti ma discorde a livello di consenso nei riguardi di una precisa traccia ermeneutica e di un orizzonte storiografico condiviso. Un apporto decisivo all’inserimento delle scritture bodiniane entro la cornice del canone novecentesco è dato dal coinvolgimento dei maggiori italianisti, chiamati al corpo a corpo con il testo (di particolare complessità per le sue quote di non-detto, per il citazionismo cifrato o palese, per il costante travaso fra il vissuto e la sua trasposizione in figura, in emblema della condizione generale dell’uomo). La riflessione “geostorica” sul riassestamento degli equilibri tra Centro e Periferia (tra le capitali del sistema culturale ed editoriale, Firenze e Milano, e le nuove realtà dislocate nella provincia italiana), si colloca nel segno di una nuova rotta impressa alla declinazione del canone, in una prospettiva rispettosa della tradizione della letteratura meridionale – spesso negletta o ridotta all’univocità di una retorica (neo) realista della denuncia sociale. La funzione trasgressiva rispetto alle norme e l’abbrivo fantastico originati dalla vocazione surrealista del Bodini accademico e poeta conducono, infatti, alla visione di una li nea meridionale barocco-surreale, che dalla Francia si innesta nel ceppo della letteratura spagnola, rappresentativa di un Sud europeo e caratterizzato da una più «aperta consapevolezza» rispetto al sentimento di tedium vitae imperante nelle lande depresse nel Mezzogiorno d’Italia. In sede di Prefazione, Lucio Giannone rende ragione del velo di oblio caduto su una figura così rilevante e motiva l’indifferenza di critici anche autorevoli con i fraintendimenti che condannano alla rappresentazione del “colore” e del pittoresco uno scrittore il cui impegno meridionalista invece «assume molteplici significati e si sostanzia di una riflessione esistenziale, storica, sociale, antropologica che conferisce alla poesia bodiniana un notevole spessore e dà ad essa una sorprendente attualità».
La considerazione dell’opera del salentino incrociata con le sue scommesse sul piano della teoria dell’avanguardia e della critica militante risulta utile per districare l’esigua vena del Surrealismo italiano da confusioni e genericità: se, infatti, nel campo della prosa la categoria del surreale e quelle affini di Italie magique e di letteratura dell’assurdo possono essere invocate a buon diritto a proposito di Landolfi, Delfini, di Joppolo e di certo De Libero, in poesia i confini si fanno più incerti (come attestano i regesti e le antologie a maglie larghe dedicate a queste ipotesi di affiliazione). Gli apparentamenti devono essere giustificati da una marcata consapevolezza e non può stupire la circostanza che a Bodini si affianchi un drappello di autori meridionali che traghettano nel secondo Novecento le istanze dell’avanguardia bretoniana: da Sinisgalli e Gatto (limitatamente a certi accordi) fino ai napoletani Felice Piemontese e Franco Cavallo, traduttore di Max Jacob, e al poligrafo romano Mario Lunetta. Alla codificazione del Surrealismo bodiniano, seguito per li rami dalla matrice franco-spagnola di Éluard/Alberti agli esperimenti in proprio di Metamor, si dedicano Antonio Prete, Valter Leonardo Puccetti, Stefano Giovannuzzi (che individua la faglia tra il Bodini fiorentino e la sua conversione sperimentale: «la rilettura del percorso dei surrealisti spagnoli permette di evitare le secche in cui si è arenato l’ermetismo fiorentino e nello stesso tempo di rimettere in gioco la poesia»). Attraverso queste pagine ci è possibile ripercorrere la fitta rete di relazioni intrattenute da Bodini con i principali intellettuali novecenteschi, da Oreste Macrí e Luciano Anceschi a Giovanni Giudici (si vedano i contributi di Ettore Catalano, Fabio Moliterni, Dario Tomasello) come pure tracciare la sottile linea divisoria fra amici e “nemici”, quali furono Tomaso Fiore e Giacinto Spagnoletti, rievocati rispettivamente da Franco Martina e da Maria Teresa Pano, mentre Francesco Tateo ci rende partecipi dei propri ricordi legati alla collaborazione del collega al foglio universitario «Criterion», in cui fu pubblicato il primo racconto di Bodini. Tra i meriti del libro che si recensisce stanno la rivalutazione e l’approfondimento di fasi oscure dell’attività di Bodini, sia per quanto attiene alla scelta del genere letterario (Giuseppe Bonifacino illumina le tentazioni tanatologiche del prosatore), sia in relazione alle fasi iniziali o a quelli finali della sua breve ma intensa stagione creativa: per gli esordi e le prime affermazioni si vedano i contributi di Antonio Marzo e di Maria Dimauro, mentre Simone Giorgino si occupa del Bodini postumo fra Zeta e Poesie ovali; questi e altri dei saggi raccolti negli Atti fanno chiarezza, con acribia filologica, sulla complessa genesi della raccolte postume edite da Macrí secondo un personalissimo e arbitrario criterio di ripartizione. Inoltre, ci si approssima ad una conoscenza capillare della vita e delle attività del poeta nel periodo che corre dal ritorno dalla Spagna al varo dell’«Esperienza poetica». Ricognizioni dell’intero percorso «in tre movimenti» dell’opus bodiniano sono condotte nelle letture in chiave tematica, retorico-stilistica, estetica: Giulio Ferroni scrive della luce e il buio del Sud, nell’ottica di «una sorta di una disappropriazione dell’esistere»; Enrico Testa, a partire dall’indagine linguistica e dalla campionatura offerta da Finibusterrae, individua una dinamica per la quale «le ragioni o le pulsioni della frammentazione si scontrano con quelle del ‘legato’, il discontinuo si innesta nel continuo, gli sbreghi, i tagli, le ferite nel tessuto e la sua trama, sulla pelle e la sua struttura»; Giannone commenta articoli rari dedicati a questioni di poetica apparsi su fogli locali e nazionali fino alla metà degli anni Quaranta, termine di «questa fase di ripensamento sulla funzione della letteratura» che prelude alle battaglie per il nuovo de «L’Esperienza poetica».
Anna Dolfi, muovendosi tra grammatica e topoi di un immaginario poetico, riscontra un azzardoso dédoublement nel cui schema di destino «il coté euforico, la componente teatrale avrebbe finito per essere in lui preponderante» rispetto a quella «grammatica del niente […] istallata fino dalle origini nella sua poesia». Per Antonio Prete, che fissa la bussola dell’interpretazione sul binomio lontananza/traduzione, il Sud dell’autore salentino è «il paese osservato da una sopravvenuta distanza interiore: in questa distanza era già l’attesa della partenza, come è l’esperienza del ritorno». Andrea Battistini risale alle fonti del «demone gnoseologico» annidato nel barocco bodiniano, costola di quel neobarocco novecentesco che da Eugenio D’Ors a Ungaretti, fino a Dámaso Alonso, affonda il proprio sguardo nel vortice delle metafore gongorine e quevediane (motivo di esercizi di stile sono le metafore fluviali e quella delle lacrime che Bodini trasla dal mestiere di ispanista al deposito della propria poesia). Ulteriore effetto benefico della riproposizione della figura di Bodini è la possibilità di sottolinearne l’eredità rifluita nella parola viva dei poeti contemporanei: le testimonianze di Lino Angiuli e di Alessandro Leogrande captano echi della scrittura bodiniana e li situano nel continuum dell’operare poetico. Se non risolutivo di lunghi indugi e incomprensioni da parte della critica, il riconoscimento che da questo volume si proietta sull’opera di Vittorio Bodini travalica il significato di un pur necessario invito alla lettura per costituirsi quale imprescindibile punto di avvio per nuovi studi che riaccendano quella discussione sul fare poesia che l’autore morto prematuramente a Roma nel 1970 si proponeva di realizzare anche a costo di fare di se stesso e della propria opera le cavie di uno «sperimentalismo estraneo a programmi troppo vincolanti, disposto a ridiscutere se stesso nella verifica dei contesti e delle proprie possibilità» (Giulio Ferroni).
[AA.VV., Vittorio Bodini fra Sud ed Europa (1914-2014). Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce-Bari, 3-4, 9 dicembre 2014, a cura di Antonio Lucio Giannone, Besa, Nardò (LE) 2017, 2 tomi, in “Sinestesie”, a. XVII, 2019, pp. 524-528].