La scomparsa della conversazione al tempo dell’invasione tecnologica

Se la conversazione è un incontro con l’altro e se l’altro è sempre, in qualsiasi situazione e condizione, un soggetto che porta conoscenze ed esperienze, il contrarsi della conversazione genera la conseguenza di una contrazione dello scambio di conoscenze ed esperienze. La scomparsa – o comunque il progressivo ridursi – della conversazione, non solo si riflette negativamente  sulle relazioni interpersonali, ma  incide significativamente sui processi della conoscenza informale che della conoscenza rappresenta una parte considerevole.

Così ciascuno di noi si ritrova con una conoscenza che non si espande, non si riproduce, non si sviluppa, se non attraverso processi formalizzati che però  non possono avere l’esclusiva della formazione delle conoscenze. Si ritrova con esperienze che non costituendosi come maglie di una rete, non integrandosi con altre esperienze,  esauriscono la loro funzione nello stesso tempo in cui si realizzano.

Poi, forse l’aspetto più importante, e più affascinante, di una  conversazione è la relazione tra identità, che nelle situazioni più consuete e informali avviene senza schemi, senza schermi, senza finzioni, in una condizione di spontaneità e di autenticità che in altre situazioni comunicative si ritrova di rado.

La conversazione si è ritirata da qualsiasi  luogo, da ogni contesto: non appartiene più alla casa, non alla strada, non alla piazza. Sarà perché manca il tempo, o sarà perché abbiamo perso l’abitudine, il costume, non abbiamo più un’educazione alla conversazione. Sarà perché non abbiamo o diciamo di non avere più tempo, perché ci lasciamo travolgere da una frenesia provocata dall’inessenziale, per cui non si indugia a raccontare, ad ascoltare, ci si limita a comunicare con una rapidità che brucia ogni condizione di prossimità, di vicinanza, di comunione. Non c’è apertura, non c’è confronto, incontro, disponibilità, interazione.  Sarà  perché i mezzi della tecnologia si sono impadroniti di ogni tempo e di ogni spazio. Sarà per queste e per innumerevoli altre ragioni, ma la condizione è, ormai, quella della solitudine, di cui forse non ci rendiamo più nemmeno conto.

Nel suo testamento spirituale e culturale, intitolato Babele, uscito nel 1988, Paul Zumthor scriveva: “Eccoci già, dietro i nostri occhiali speciali, a contemplare una realtà virtuale che esaurisce le possibilità passate, presenti e future, cioè che sospende il destino e intrappola la nostra umanità. Noi, che assistiamo per primi a questa mano di gioco, sapremo, lo spero, tirarci fuori dalla trappola”. Era trentacinque anni fa. In questi anni è cambiato molto. Forse troppo. Non è più la prima mano del gioco.  

Nella carrozza del treno che da Milano viaggia verso il capolinea a Sud del Sud con 55 minuti di ritardo, sono rimasti soltanto l’uomo che legge il libro sul Calvino e un ragazzo. Alla fermata si dicono buonasera, buonasera. Tutto qui, in undici ore di viaggio verso la stessa città.   

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 15 ottobre 2023]

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