Capote e quell’ossessione per la “scrittura verità”

Capote non vuole narrare fatti d’invenzione, vuole prendere a piene mani dal reale. Comincia a farlo già con la storia di Holly Golightly, protagonista di “Colazione da Tiffany” – come dichiara all’intervistatore Grobel (“Holly era ispirata a una persona che esisteva davvero”) -, romanzo che lo condurrà ad un successo planetario grazie all’interpretazione di Audrey Hepburn nella versione cinematografica. Continua a inseguire il reale con l’attività di giornalista, con le interviste ai personaggi del fatato e sfavillante mondo di Hollywood. Tra i più celebri Marylin Monroe e Marlon Brando. Le interviste di Capote alternano al corpo del dialogo delle descrizioni che vanno ben oltre il taglio giornalistico e sfociano, in maniera irruenta, nel romanzesco: “La luce andava calando. Lei pareva dissolversi con essa, fondendosi col cielo e le nubi, svanendo ancora oltre. Io volevo alzare la voce superando le strida dei gabbiani e richiamarla: Marilyn! Marilyn, perché doveva andare tutto come è andato? Perché la vita dev’essere un tale schifo?”. Non è una domanda alla quale Marylin è tenuta a rispondere, è un irrompere dell’estro del romanziere che fa di un personaggio di carne e sangue, che siede di fronte a lui e risponde alle sue domande, una creatura eterea che ascende al cielo, oltre le nubi. Nelle interviste, dunque, Capote persegue già una mescolanza di fittizio e reale che lo condurrà sulla strada della “non-fiction”. Non vuole più far parte di una generazione di scrittori americani aggrovigliati nel proprio io, nelle proprie ossessioni ed emozioni. Vuole una storia vera, concreta. E la trova: “Uccisi un contadino e la sua famiglia in Kansas” recita il “New York Times” del 16 novembre 1959. Allora Capote parte per il Kansas e ci rimane fino a quando il caso dell’assassinio non è risolto. La storia della famiglia trucidata, i Clutter, e dei suoi assassini, Perry Smith e Richard Hickock, condannati alla pena di morte, diverrà la storia di “A sangue freddo”, primo esempio di “romanzo-verità”, quella forma di giornalismo narrativo che mette insieme il reportage alle tecniche del romanzo. Nel periodo in cui indaga, studia e raccoglie i dati del caso, Capote dorme tre ore a notte, conosce l’angoscia e la solitudine, rafforza quella parte di sé che “sta sempre in un corridoio oscuro”. Il risultato sarà un capolavoro giornalistico che cambierà per sempre l’arte del narrare. Dopo avergli chiesto cosa gli fa più paura (“Be’, non mi piace rimanere da solo per troppo tempo”), Grobel gli chiede cosa altro avrebbe fatto, nella vita, se non lo scrittore: “Se avessi potuto fare qualcos’altro, mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato. Sarei stato un avvocato magnifico. Non so quanto sarei stato felice, però”.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 17 ottobre 2023]

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